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IL SECOLO XIX - 19/11/2001 |
Genovesi, fate i matti e imparate da Barcellona |
Dove eravamo rimasti l'undici settembre prima delle quattro del pomeriggio in questa città? Cosa stavamo facendo, di che ci stavamo occupando, di cosa eravamo preoccupati, di cosa felici?
Io ero a casa e stavo scrivendo un articolo che cominciava così: Forse sarà un rinascimento, forse. Voglio ripartire da lì, e siccome sono passati ottanta giorni, e sono stati ottanta giorni di guerra, di guerre, e assieme a quelle è arrivato di tutto e di ogni cosa specialmente il peggio cercherò di ripartire in quarta, per aiutare la mia memoria e stimolare, se ancora è possibile, il vostro interesse.
Forse questa città ha intrapreso un suo speciale postmoderno rinascimento, forse non lo sarà mai una città rinascimentale; dipenderà da quello che la città avrà voglia di fare se stessa. Potrebbe, semplicemente, non importargliene nulla di quello che potrebbe essere per la gioia intellettuale d'Europa e durare comunque in perpetuo, superando le epoche delle decadenze regolandosi come sa fare da mille anni per rimanere viva nonostante gli universali pronostici avversi.
Forse. Se sarà un rinascimento sarà un'epoca di creatività, non di restauro. Non basta mettere a nuovo vie e palazzi per rinascere, potrebbero andare altrettanto bene le vie e i palazzi per seppellercisi dentro a godersi un quieto e ristorante pisolino eterno. Di più: può anche accadere che i palazzi ingombrino la via del rinascimento, che le eredità siano troppo onerose e invadenti. I cinesi, ad esempio, ogni millennio o due sono soliti radere al suolo la loro civiltà e ricominciare da capo. A noi fa orrore, a loro sembra il sistema più comodo di rinascita.
Abbiamo gli spazi, ora dobbiamo decidere cosa metterci dentro ha ammesso il sindaco nei primi giorni settembre. Siamo forti nell'hardware, deboli nel software, ha incalzato il presidente del Ducale. Già, una bella complicazione. Infatti gli umani sono soliti procedere in senso inverso: hanno delle idee, dei progetti, dei sogni, e gli creano attorno gli spazi per realizzarli.
Immaginate l'imbarazzo del faraone che, avendo un milione di schiavi in esubero e qualche miliardo di talleri extrabilancio, mette su una piramide niente male, dopodiché si interroga sul software da applicarci. Cosa ci mettiamo dentro?
Assilla il suo gran consiglio finché un arguto cortigiano non trova l'idea risolutiva: ma naturalmente lei, maestà. No, non è andata così; il faraone aveva un conto aperto con il divino e l'eterno, e lo ha rappresentato in quel modo.
Se ci sarà, il rinascimento di Genova sarà complicato dal fatto curioso di avere più cose di quante ne abbia pensate; di avere molte cose, di essersi data amministratori che hanno saputo renderle belle, ma non aver prodotto abbastanza creatività per fare di tutto ciò il Pensiero, l'idea della propria rinascita, la nuova era.
Genova è forse una città ottusa? Mantiene forse gulag segreti in cui finiscono a marcire gli ingegni più vivi? Non mi pare. Genova è una città sobria, la sua sobrietà è tollerante e colta, non ottusa. E la sobrietà è una qualità assai apprezzabile, anche se forse non è la più adatta ai rinascimenti: i rinascimenti non sono mai sobri. I rinascimenti sono grandi avventure, azzardi del pensiero, lotte mortali tra tendenze, slanci per nulla avveduti.
Nella sua sobrietà Genova ha forse qualche difetto. Di questi, uno sta lì proprio a impedire il formarsi stesso dell'idea di rinascimento. Cercherò di spiegarlo così. I genovesi pare che siano grandi estimatori di Barcellona. Se Alitalia fosse un'azienda con scopi di profitto avrebbe almeno un volo settimanale da e per Barcellona: a parte il turismo, basterebbe a renderlo attivo il va e vieni degli studi di architettura, dei consulenti, dei manager e degli amministratori.
Barcellona è indubbiamente la città europea che gode del più splendido rinascimento urbano di questi ultimi decenni. I catalani hanno un giorno di inizio per il loro rinascimento: il giorno in cui Carrero Blanco, ultimo ministro franchista, fece quel suo spettacolare volo di venti metri sospinto al cielo da diversi chili di tritolo. Finito di festeggiare la fine delle dittatura, il giorno dopo Barcellona era già il cantiere intellettuale della sua rinascita; una generazione intera di padri aveva lavorato, giorno dopo giorno con spirito di sacrificio e senso del futuro, perché si formasse una generazione di figli abbastanza libera di pensiero, generosa di lavoro, estrosa di idee e coraggiosa, da poter dare avvio a un'epoca nuova.
Così è ancora oggi, dopo ormai vent'anni. Ma ricordo bene come, per anni e anni, l'unica pubblicità che esponeva nei muri la generalitad era un'unica enorme scritta, onnipresente: fez cultura. Fate cultura. E la generalitad ha messo a disposizione risorse enormi perché la generazione nascente sperimentasse la cultura. Nel teatro come nell'architettura, nella politica. I padri hanno rinunciato a molto, ma hanno fatto l'unica cosa sensata in fatto di rinascimento: hanno permesso che si liberassero le energie nuove, che potessero rischiare e anche sbagliare. I risultati se li godono i barcelloneti e tutti quanti noi che andiamo in pellegrinaggio.
Se Genova ha un difetto detrimente di ogni sorta di rinascimento, è, a parte il fatto che non ha goduto di quarant'anni di dittatura in cui dedicarsi alla riflessione, quella che mi pare una scarsa propensione alla generosità dei padri, padri che aborriscono il rischio di un futuro che non sanno disegnare loro stessi. Diciamo così, una certa qual ferrea affezione dei poteri, di ogni forma di potere, per se stesso usque hac cadaver. Che è un modo di far andare avanti il mondo anche quando sembra che sta fermo, certo, che concede alle nuove generazioni un bel po' di tempo libero per sollazzarsi come meglio credono, ma che non può che essere quello che è: conservazione e non rinascita.
Restauro, appunto, non rinascimento. Anche a tingersi i capelli e mettersi i jeans. Anche ad essere anagraficamente figli; se c'è una cosa in cui è esperto un vecchio padre è la clonazione di se stesso. C'è una pubblicità della Honda dove si vede il volto proprio del vecchio signor Honda che riflette così: ho molti giovani collaboratori. Molto spesso non capisco i loro progetti e non condivido le loro idee, e allora penso che ho scelto bene. Mi chiedo se sarebbe possibile sostituire la faccia del signor Honda con quella di un genovese titolare di un qualche potere.
Non è obbligatorio che la città si proponga alcunché di diverso da quella che è oggi. Io, ad esempio ci vivo bene così, forse per via che ho già i miei anni. Ma se intendesse una volta nella sua storia moderna dar fuori di matto e lanciarsi nella vertigine, sarà meglio che rifletta sulla lezione della sorella catalana.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 02/12/2001
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