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IL SECOLO XIX - 13/01/2002 |
Come era strana la mia Sampdoria |
Lo devo
dire. Non mi piacerà dirlo e non è neppure opportuno
che lo dica; servirà solo ad alimentare più antipatie
di quante me ne sono già procurato in lunghi anni di
insopportabile carattere. Il fatto è che certe cose uno non se
le può tenere dentro tutta la vita. E certe cose, prima o poi
si vengono a sapere. E allora è anche peggio, peggio che mai,
dei codardi. No, se si deve risapere, tanto vale che sia a spargere
la voce. Ebbene sì, sono doriano. Sono doriano da quando avevo
dodici anni. Sono diventato doriano per l'onorevolissima ragione che
sarei stato l'unico tra tutti i miei compagni dell'oratorio a
diventarlo. Non c'era modo di scovare un solo doriano suppergiù
della mia età in tutta la città: tifare per la Samp era
essere molto strani. A me piaceva essere strano. Anche la Samp era
strana, lo è stata strana per un bel po' di anni. Era strana
come giocava, era strano dove giocava, era strana addirittura la sua
maglietta. In un'epoca in cui gli schemi tattici del gioco
all'italiana li volevano nella zucca persino dei ragazzini della
squadra oratoriale, la Samp giocava all'inglese. O forse non giocava
neppure all'inglese.
Giocava e basta, e con la tabelle degli schemi i giocatori ci dovevano fare gli aeroplanini per tirarseli negli spogliatoi. Era strana ma molto divertente la Samp. Forse la squadra più divertente che abbia mai avuto la divisione maggiore e la divisione cadetta per quasi due decenni dagli anni settanta in poi. Erano divertenti i suoi giocatori, i suoi allenatori, i suoi tifosi. Compreso il suo presidente; sì, ha avuto anche un presidente divertente.
Era una squadra divertente perché sembrava che avesse solo voglia di giocare, e di divertirsi, appunto e aveva un pubblico che l'assecondava. Giocava come se la vittoria fosse un fatto secondario, una nota a piè pagina: giocava per giocare. E si è mangiata cento vittorie per il gusto di fare stranezze. E il suo pubblico era contento così; i tifosi più simpatici che si potessero incontrare su una gradinata; e i più pacifisti almeno fino alle rubinettate a Pagliuca. Però, dei rubinetti. Magari non sarà un'attenuante, certo non si può dire che non sia una cosa da strani.
Al Ferraris ci ho messo piede nei primi anni Ottanta, ai tempi di Francis e Brady, due cavalli mica poco bizzarri. Partivamo per tempo da Spezia io la famiglia intera di un mio amico, il tifoso numero 1 della città. Portava allo stadio moglie e figli perché era una scampagnata adatta a tutti; il nostro posto è stato sempre nella quarta fila dei distinti, per qualche anno sempre dietro a un signore che aveva una enorme radio stereo in grembo che lo riparava dalla vista del campo: seguiva il gioco alla radio forse per non emozionarsi troppo. Tra le ginocchia avevamo la sacca frigo e il cestino dei panini perché per avere quei posti dovevamo entrare molto in anticipo.
Non c'è campo di calcio più bello in Italia per chi vuole andare allo stadio per vedere giocare a pallone; un campo, se posso dirlo, nobile. Un campo perfetto per la Samp che giocava e per noi che volevamo vederla giocare. Mi correggo: era non è, il campo perfetto, perché il '92 e il sommo Gregotti non hanno giovato alla sua nobiltà. Non so perché, ma ho smesso di andarci volentieri. Ho smesso del tutto qualche anno fa, dopo la morte del presidente. Quante volte me lo hanno rinfacciato quel presidente; gli altri, quelli che pensavano di tifare con squadre presidentate con più noblesse, con maggior buon gusto in fatto di affari. Figuriamoci! Al riguardo non ho mai polemizzato; rispondevo affidandomi alla saggezza di De Andrè: non è dai diamanti che nascono i fior. E la Samp di Mantovani era un fiore, e quel presidente l'ha coltivato quel fiore, oh se l'ha coltivato. Era un presidente che non amava semplicemente il calcio, lui amava il gioco del calcio. Infatti ha trovato quel pazzo di Boskov e lo scudetto. Samp, Boskov, scudetto: una combinazione che a rigor di logica è impossibile. La combinazione più divertente del calcio italiano. Io sono andato ai suoi funerali, sono stati il ritratto fedele suo, della sua squadra, del suo pubblico: gioco, stranezza, nobiltà.
Ho smesso di andare allo stadio dopo aver notato lo sguardo del nuovo presidente: il suo era uno sguardo da baseball, non da calcio. A me piace il baseball, mi sono detto, ma preferisco vederlo giocare su un diamante. E le cose poi sono andate come sono andate.
Da ieri è cambiato, tutto è nuovo, tutto è rinato, o lì lì per rinascere. Ci sarà una nuova Samp e come sarà non lo so ancora. C'è un nuovo presidente, questo poco ma sicuro; voglio dire che adesso c'è di nuovo un presidente con lo sguardo da calcio. La cosa più stupida a cui potrò dedicarmi sarà fare confronti. La cosa più intelligente sarebbe sciogliere il mio voto e tornare allo stadio. Pare che lo farò per poco, presto sarà pronto un nuovo stadio. Di là, come dicono quelli del centro storico. In fin dei canti la squadra ritornerà da dove è venuta.
Non credo che mi adatterò facilmente a un nuovo stadio, né mi sarà indolore dimenticare il vecchio. Che era perfetto, che lo sarebbe ancora se potessi tornare con i panini e la sacca frigo a vedere giocare Vialli e Mancini, sentire la bestemmia serbocroata di Boskov più potente della radio del signore di sotto, intuire laggiù, nel gesto del presidente, un'irresistibile voglia di giocare. Solo che questo è impossibile. Il possibile è in quello che potrà accadere nel mondo così come è e come riusciamo a farlo per il meglio. Buona fortuna Samp, salute a te fiorellino del gioco del calcio.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 13/01/2002
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