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IL SECOLO XIX 21/03/2002 |
Il destino imposto dalle pistole |
Da Copenaghen guardo il mio paese. Da Copenaghen guardo un uomo morire riverso sul marciapiede intrecciato alla sua bicicletta. Da molto, molto lontano, sento sparare. Ancora sparare laggiù. Sono qui da sei giorni ed è come se fossi alle cure termali dell'anima. In questo Paese di gentilezza e morbidità, il culto della sincerità e dell'equanimità, la tragedia nazionale che occupa da settimane le prime pagine dei giornali è un sindaco di un piccolo comune che ha sperperato i soldi dei cittadini per finanziare megalomani opere pubbliche a favore di una parte soltanto della collettività, quella lui politicamente vicina.
Questa mattina, dopo così tanti anni che non si ricordano più, gli studenti di Danimarca hanno manifestato contro il governo di destra, per i tagli alla cultura della nuova finanziaria. Cantavano: Il futuro non gratis. Cantavano: Non ucciderete ciò che è appena nato.
Domani tornerò nel mio Paese e ciò che ora sento è che tornerò a un destino, non a una storia civile. La prigione di un destino, il tormento claustrofobico dell'ineluttabilità, non la libertà d'immaginare e costruire una storia. Non mi sarà dato un futuro, qualunque sia il prezzo che potrò decidere di pagare, perché nel mio Paese vige la regola che si uccide ciò che sta per nascere. O che semplicemente potrebbe nascere. Da troppi anni ormai succede perché io non pensi, da quassù, a un destino.
E questo è intollerabile, e questo non è vivere. Quell'uomo e la sua bicicletta sul selciato nella notte di Bologna mi accompagnano a una casa che preferirei non avere. Ho scritto su questa stessa pagina nemmeno un mese fa cosa penso del terrorismo. Non ha senso ripeterlo, se non per affermare proprio quello che vorrei negare: il ripetere, ancora una volta, all'infinito, della proclamazione dello stato di impotenza. Il teatro è illuminato a giorno, la vecchia compagnia di giro è sempre pronta a calcare le sua scena. Se il tritolo non fa più rumore, allora si provi con le pistole; il colpo è sempre stato in canna. Apro i giornali danesi e non trovo una sola riga sulla morte di Biagi. Ai danesi non pare interessare la tragedia del mio Paese, ma solo il suo spettacolo. E lo spettacolo italiano in gran voga sui giornali di destra come su quelli di sinistra è il suo campionato di calcio e il suo primo ministro. Gli amici danesi cercano di scusarsi: noi non abbiamo avuto gli anni di piombo. Entro in un ministero, parlo con il funzionario, senza aver subito un solo controllo: dormo nelle Casa della Cultura Italiana avendomi tirato dietro semplicemente la porta. Se chiedo mi guardano in modo strano: di cosa dobbiamo aver paura? Qui siamo in Europa così come in Europa è il mio Paese; tale e quale in Italia ci sono gli immigrati clandestini, si fa politica, si manifesta, ci si oppone. Ma qui si vive per costruire una storia, laggiù per imporre un destino. Non importa se a sparare siano state le Brigate Rosse o qualche altro attore della vecchia compagnia rinnovata per l'occasione. Ciò che conta sarà come sempre, come è giusto, cosa prevede il copione per il finale: uccidere ciò che potrebbe essere il mio Paese se fosse libero dalla sua storia, la tirannia del futuro. Intanto un altro uomo è morto. Non lo conosco, ma per forza di cose, perché così si è sempre scelto che fosse, tutto deve essere tranne che un nemico del popolo. I nemici del popolo sono tutti lì, vivi, da sempre, a calcare la scena con la solita vecchia storia.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 21/03/2002
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