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IL SECOLO XIX 31/03/2002 |
La crocifissione di un popolo |
Nella
chiesa del paese dove sono nato conserviamo un tesoro di cui andiamo
molto fieri: una bellissima tavola di Bruegel il Giovane, una
crocifissione. E' un dono che un nostro antico compaesano ha ricevuto
come liquidazione per una vita spesa da maggiordomo presso la
famiglia dei Fieschi. Uno molto generoso, straordinariamente
singolare. Noi, che da fieri ostici apui non diamo molto credito alla
generosità dei nobili, pensiamo che gli spilorci Fieschi
abbiano voluto sì dare una gratifica, ma nel contempo
sbarazzarsi di un quadro difettoso. Quella tavola infatti contiene
una grande stranezza, un vistoso difetto. Tra le colline verdi e
dorate delle piena estate nordica, tra campi di grano appena mietuto,
si consuma il supplizio del figlio di Dio e dei suoi compagni di
verdetto. Solo che le croci non sono tre, ma quattro: ci sono tre
uomini che muoiono assieme a Cristo. Una bestemmia, avrà
pensato il confessore di casa Fieschi; una stupida bravata del
fiammingo, si sarà detto il padrone di casa, rifiliamola al
castelnovese e ignorante, che laggiù in provincia non ci
faranno gran caso.
Noi invece ci abbiamo fatto caso e sappiamo che non è una bestemmia quella della quarta croce, ma un atto d'amore del pittore per il suo popolo. Laggiù, un pochino discosto dagli altri, sorvegliato da un cavaliere con le insegne cardinalizie, a patire il martirio del popolo fiammingo.
Questa tavola è stata dipinta in ricordo delle stragi compiute nella Fiandra ribelle e protestante dal cattolicissimo duca d'Alba. E siamo onorati, noi del paese, di conservare nella nostra chiesa cattolica un dipinto che ci ricorda, in modo dolce e fermo nei secoli, che il Cristo non muore mai da solo, ma che il Golgota è sempre zeppo di croci. In ogni stagione, in ogni epoca. Così come siamo fiduciosi, noi del paese, che quegli uomini e quei popoli risorgeranno come ha promesso loro il Cristo. Forse in questo aveva ragione il Fieschi: siamo ingenui e ignoranti.
Io che sotto quel dipinto ci sono cresciuto, in venerdì santo cerco di non dimenticare di guardarmi bene attorno, di constatare che e quanti tra gli uomini e i popoli stanno patendo il supplizio; e quando nella notte di sabato si sciolgono le campane, ingenuamente fiducioso vado cercando i risorti. Non sempre ne trovo. Ma non mi dispero: il figlio di Dio ci ha messo tre giorni, può darsi che per gli umani ci voglia un pochino di più.
Ma ieri la notte è stata dura, davvero molto dura. Quando le campane hanno attaccato il loro concerto, mi sono chiesto se potesse essere davvero opportuno intonare la resurrezione. Quest'anno il venerdì di passione tende, almeno nel mio cuore, a protrarsi oltre lo stabilito, a valicare il sabato del silenzio, a stravolgere la domenica della Pasqua. Ci penso mentre, ossequiente alla tradizione, farcisco l'agnello e impano i carciofi per chi, tra quelli che amo, pranzerà con me cercando ancora in questa Pasqua la speranzosità che la vita pretende. Chi risorgerà oggi tra i molti crocifissi di ieri?
Sono migliaia. A Gerusalemme, a New York, a Goma e al largo di Pantelleria. Ma ora ho in mente due uomini che hanno volto e voci, che l'hanno avuta così forte che la loro croce ha un'ombra enorme.
Un uomo crocifisso nel suo bunker, la faccia appena illuminata da una candela, un telefonino scarico in mano. Non so se in questo momento il presidente Arafat sia davvero vivo e davvero morto. Ma oggi non risorgerà. Quell'uomo è stato eletto dal suo popolo perché redimesse la storia dell'ingiustizia che ha sofferto. Non c'è riuscito, non ha potuto o non ha saputo. Ma inchiodarlo alle macerie della sua città non è stata né la giustizia degli uomini né la giustizia divina. Non c'è vera giustizia in quell'immagine, che me ne ricorda un'altra, una crocifissione di 30 anni or sono, all'altro capo del mondo, di un altro uomo eletto dal suo popolo.
Un uomo crocifisso sulla sua sedia a rotelle, inchiodato sul Golgota dalla sua malattia, la voce appena udibile che tuona il dolore della sua profezia irrisolta che sta morendo con la sua voce. Giovanni Paolo II non ha vissuto per decretare la fine del comunismo, non è per questo che giustifica la sua vita agli occhio del suo Dio. Si è assunto una missione un pochino più vasta: l'adempimento del disegno di Dio nel mondo. E non ha mai defletto, nonostante la storia, nonostante i poteri. Non ha mai scelto il silenzio. E ora che la sua voce si sta spegnendo, a sovrastarla non è una profezia più grande, ma l'orrida ipocrisia dei farisei. La sua voce oggi non risorge.
Eppure è Pasqua e fra poco i miei amici saranno qui a cercare assieme a me qualcosa di abbastanza vero e vicino per continuare a sperare. Il sepolcro era vuoto, nonostante l'evidenza dei fatti, infine era vuoto.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 31/03/2002
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