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IL SECOLO XIX 09/04/2002 |
Però io ho cantato |
Alla fine l'ho cantato anch'io. L'ultima volta che c'era riuscito qualcuno è stato il maestro Marcucci, nel cortile della scuola Silvio Pellico, il giorno degli esami di quinta elementare. E bravo maestro: me l'ha ficcato così bene nella zucca che lo so ancora a memoria! E così eccomi qua a inanellare le immortali parole del patrio inno alte nel cielo di Marassi, io che non sono schiavo di nessuno e men che meno di Roma, io che non intendo cingermi la testa di niente né porgere la chioma ad alcunché.
Un miracolo di patriottica canonità che condivido con questa sciamannata folla di garruli stonati e smemori, tutti affardellati nelle divise della propria tifoseria, che mi sembra di essere a un battesimo psichedelico di massa nello stile di un qualche reverendo Moon.
Eppure è successo, anche se mi dicono che la tv non se ne è accorta, e il nonnetto azionista potrà essere ben orgoglioso dei suoi nipoti genovesi.
Se la sua idea è giusta, se cioè anche un inno malriuscito e incomprensibile ai più (e ieri sera perfino fischiato dalle gradinate) può fare qualcosa di buono per costituire un'identità di popolo, e dare al popolo un'immagine di sé un po' più alta e civile della pastasciutta e del chi ha avuto ha avuto, allora a Marassi, con meno prosopopea che a Teano, si è fatta l'Italia.
Mah, sarà meglio non esagerare. Vediamo se, tanto per cominciare, appena finito di inneggiare, il popolo d'Italia in derby non replichi quello che è successo alla Silvio Pellico il giorno egli esami: che ci siamo presi a cartellate e righellate finché è rimasto al collo l'ultimo colletto di celluloide, l'ultimo fiocco azzurro. Allora Mameli non aveva assopito i rancori tra i figli degli operai dell'Arsenale e i figlio dei bottegai di Viale Garibaldi. Ma in verità Mameli non deve assopire un bel niente: quello che chiede non è forse di destarsi?
Già, che i fratelli d'Italia si dèstino. E' un buon augurio, una onesta speranza. Si incominci da qui, da queste due squadre che stanno per giocarsi quel po' di dignità che ai neo italiani di Marassi spetterebbe di diritto. Noi il nostro lo abbiamo fatto. Abbiamo cantato veglia e fratellanza, lo abbiamo fatto, vista la desuetudine, con generosità e forse con sincerità. Forse anche solo per scaramanzia. Dopo essersi riempiti, come il sottoscritto, le tasche di aglio, che altro potevamo inventarci? Caro Presidente, lei che sta assiso nell'empireo della sua repubblica e antifascista italianità, ci guardi bene e decida pure con comodo in coscienza. E badi bene che in tribuna d'onore non cantava nessuno.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 09/04/2002
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