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MAURIZIO MAGGIANI

IL SECOLO XIX 25/09/2001

Cosa ho imparato dall'America ferita



L'altra notte, in diretta da casa sua, il presidente Bush si è rivolto anche a me. Lo ha fatto a muso duro, senza nemmeno guardarmi in faccia. Attento figliolo, mi ha detto, deciditi in fretta: o con l'America e la civiltà o contro l'America e la barbarie. Ho il mio carattere, non mi piace che mi si parli così. Non l'ho mai tollerato, nemmeno da bambino, tantomeno da quelli più grandi e più grossi di me; ho trascorso un'infanzia costellata di occhi pesti e lividi. E ho reagito ancora una volta d'istinto. La faccia in fiamme, il groppo alla gola, gli ho gridato: Ah, è così che la vuoi mettere? Cosa ne sai te di civiltà? E sai che ti dico? In un attimo tutta la commozione e il dolore umano, tutta la frustrazione e la rabbia di un uomo civile che mi hanno preso e mai dato pace dalle quattro del pomeriggio dell'11 settembre, è come se si fossero squagliate sotto il peso intollerabile di una schiacciasassi. Ho spento il televisore, ho cancellato la faccia dell'uomo più potente e più ignorante del mondo e ho cercato di pensarci su con un po' di calma, di ragionare.

Cosa sono io, filo americano o anti americano? Che cosa significa essere l'una o l'altra cosa? Sto scrivendo con un computer progettato e costruito a Cupertino, California. Il suo logo mi dice: Think different.

Può sembrarvi singolare, ma così come è stato progettato, il mio computer mi aiuta realmente a pensare in modo differente. Finito di scrivere non vedrò l'ora di potermi mettere a leggere il romanzo che ho qui davanti, uno dei più belli che abbia mai letto, di uno di quegli autori che più amo, americano. La musica che più mi coinvolge, l'arte che più mi affascina, il cinema senza il quale mi sciuperei di tristezza, sono americani. La dichiarazione di indipendenza più bella e più saggia che sia mai stata proclamata è americana. Se tutto questo è civiltà, io sono filo americano.

I covi dei terroristi taliban che gli Stati Uniti, a Dio piacendo, si apprestano a spianare, sono stati a suo tempo messi su e finanziati dagli Stati Uniti per vincersi la loro guerra contro l'Urss. Bin Laden era della partita. Arabia Saudita, Pakistan, Emirati Arabi, i massimi sostenitori dei talibani e protettori dei loro scherani, sono tra i più intimi amici e soci d'affari degli Stati Uniti. Le dittature più schifose del terzo mondo dove si praticano i commerci più immondi, dove l'uomo è comprato e venduto come carne da macello, sono benignamente tollerate dagli Stati Uniti per “ragioni strategiche e di interesse nazionali”, parole di più di un segretario di stato, democratico e repubblicano.

I più grandi dissipatori dei beni comuni a tutti gli uomini del pianeta, sono gli americani. La Cia, non fosse bastato il resto, ha spacciato per anni droga ai cittadini americani neri per finanziarsi le sue operazioni coperte contro Cuba. Se questa è civiltà, io sono anti americano. E dunque? L'America è destinata ai miei occhi ad essere indigeribile? Inestricabilmente grande a infausta, geniale e crudele? Basta questo a descrivere l'America?

No, c'è dell'altro, c'è oggi almeno un'altra cosa. Dopo l'11 settembre l'America è riuscita ad insegnarmi qualcosa di buono, qualcosa di prezioso, qualcosa che io non ho, qualcosa che manca al mio Paese e a me. Non penso al patriottismo delle bandierine e delle mani al cuore; non sono portato ad apprezzare particolarmente questo genere. Del resto, sotto il tripudio di stelle e strisce, come sotto ogni altra bandiera, nel tempo è successo di tutto.

No, penso a New York, a quello che è successo nella città e nella sua gente. Penso al suo sindaco. Loro mi hanno insegnato qualcosa di veramente buono: un'idea positiva, trionfante, di comunità. Il bene della comunità che si fa bene di ognuno, la vita della comunità che appartiene alla vita di tutti. Generosità umana che si fa dignità civile. E lì non si è trattato di fare una colletta o mandare pacchi di pasta e cappotti usati. Si è trattato di ricostruire per intero qualcosa di più di un grattacielo: la vita intera, nello spirito e nella carne, della comunità, appunto.

Non mi è mai piaciuto un granché il sindaco Giuliani, ma questi giorni gli ho voluto bene. Lo dico a costo di espormi al ridicolo. Mi dicono che la malattia lo abbia mutato e reso più sensibile, che la crudezza degli effetti collaterali della sua politica d'ordine lo abbia fatto riflettere; non lo so. So che in questi giorni l'ho visto sempre dove doveva essere: nella realtà e non su un palcoscenico. Né l'ho mai sentito recriminare, mai chiaggnere e fottere. E' stato dentro la sua città, dentro la tragedia, non sopra. Ha fatto quello che doveva fare: ha fatto, non recitato. Ha detto: avrei voluto morire prima che questo accadesse. Io gli ho creduto; i suoi concittadini altrettanto. Molti di loro avrebbero voluto ugualmente. E la comunità ha riconosciuto se stessa nel suo sindaco, perché il suo sindaco si è fatto comunità. La parte migliore dell'uno e dell'altra.

Quello che è successo a New York è una sorta di redenzione civile. Che non è il semplice rimbocchiamoci le maniche, armiamoci e partite, volemose bbene. C'è molto silenzio e niente retorica in New York mentre si ricostruisce la vita. E perché questo accada i differenti si uniscono, non per dimenticare le differenze, ma per renderle positive. Non ha avversari la comunità quando lavora per se stessa, per tutta se stessa. E' per questo che Woody Allen e la signora Clinton, sinceri avversari, vogliono bene al Giuliani di questi giorni senza temere per questo di coprire di ridicolo.

Vivo in un Paese dove quando sento dire dal consigliere dell'opposizione: egli sia il sindaco di tutti, la prima cosa che mi viene in mente è un'equa spartizione delle sovvenzioni a fondo perduto e delle licenze. Vivo in un paese dove quando viene sparato in un tabacchino si chiedono le dimissioni del ministro degli Interni, come se la pistola fosse la sua. Vivo in un paese dove non ho mai visto, mai, apprezzare sinceramente una cosa ben fatta da un avversario politico, e l'ultima volta che ho visto due avversari di un certo nome fianco a fianco con le mani nel fango è stato a Firenze nel 1966.

Vivo in un paese dove è urgente imparare qualcosa dall'America in fatto di amore per la comunità a costo di se stessi. Lo dice l'anti americano che lotterà finché potrà perché la civiltà sia qualcosa di più esteso e complicato della faccia di G.W. Bush.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 25/09/2001

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