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Marco
Vallora |
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BALTHUS lezioni damore |
SI APRE DOMANI A VENEZIA LA MOSTRA DI PALAZZO GRASSI: È LA PIÙ GRANDE RETROSPETTIVA MAI DEDICATA AL PITTORE SCOMPARSO LO SCORSO FEBBRAIO
Marco Vallora
VENEZIA CHISSÀ se era
consapevole, il gran decano della fotografia Henri Cartier-Bresson,
93 anni, di star «scattando» così, pur senza aver
con sé la mitica macchinetta, una delle ultime sue leggendarie
immagini, unicona del secolo finito. Nel cuore della corte
coperta di Palazzo Grassi, di fronte a quel capolavoro misterioso che
è Passage du Commerce Saint-André , indifferente
a tutto quello che gli turbina intorno, è lui, il vecchio
amico duna vita di Balthus, il sacerdote laico di tante
immagini memorabili, a consacrare davvero questeccezionale
retrospettiva, la più completa sinora di quelle dedicate al
segretissimo, reticente protagonista della pittura del Novecento. Con
la sua coppoletta sghemba da turista distratto, lapparecchio
acustico in bella mostra, seduto a gambe divaricate sulla canna da
passeggio trasformata in seggiolino da gita, come se davvero il mondo
non esistesse, Cartier-Bresson rimane rapito in contemplazione di
questo quadro minerale e minaccioso, che non svela la sua chiave, ma
lentamente penetra e avvelena lo sguardo dei primi visitatori, come
una febbre spenta, ma non meno urticante. Ha appena sussurrato
allimpeccabile curatore Jean Clair: «Ma perché
tutte queste parole... La pittura di Balthus esige il silenzio».
Dopo pochissimo è isolato, meridiana piantata al centro della
sala: sè formato come un cono vuoto, intorno a lui e al
fascino strano di quella tela, che per decenni era rimasta segregata
in un caveau duna banca svizzera, e nemmeno più il suo
artefice, scandalosamente, laveva potuta reincontrare.
Nellaustera, discreta mise en scène di Gae
Aulenti, la vasta tela ha trovato il suo luogo ideale in questa sorta
di preambolo simbolico alla mostra, che oltre a disegni e documenti
presenta un terzo circa della sua produzione dipinta: un centinaio di
preziosissime opere, salvo le inamovibili. E si capisce perché
Balthus abbia sempre preteso unilluminazione naturale,
zenitale, da museo vecchiotto. Pur nel poco tempo in cui si può
ripassare davanti a questo torvo capolavoro, effettivamente la sua
pittura, ogni volta, meteorologicamente, cangia di continuo, vibra,
rabbrividisce, si reinventa. Lartista, emulo della pittura
quattrocentista italiana, usava la caseina, un collante naturale, che
rende come friabile, fermentante, biologicamente vivo il caglio di
questimpenetrabile pittura. Una pittura che talvolta,
confessava, gli «crollava addosso»: come una parete mal
congegnata. Ed è curioso, Balthus, come se il Rinascimento non
fosse mai sopraggiunto, ha spesso concepito la prospettiva dei propri
paesaggi come gotica, «verticale»: parete senza
profondità illusiva. Un nugolo di dettagli che si arrampicano
sugli specchi della visione.
La mostra procede cronologicamente,
dai primi magnifici studi dautoritratti adolescenti, dal suo
librino Mitsou , dincisore dodicenne e prefato da Rilke,
sino allultima tela, incompiuta. E significativo che un
artista che ha sempre proclamato la spersonalizzazione dellarte
(un pittore non deve esprimersi, ma lasciare cantare il mondo) abbia
poi così tormentato i propri tratti fisiognomici, quella
sagoma magicamente sfuggente e insieme tagliente, morbidamente dura
(e non dimentichiamo che morbide , in francese, ha la
sfumatura di perverso, morboso). Quando, nel 34, illustra Cime
Tempestose della Brontë, ammette: «La mia giovinezza
ha conosciuto un turbine di sentimenti, che ricorda quel romanzo».
E non a caso impresta ai personaggi i suoi tratti e quelli,
onnipresenti, della prima moglie.
Questi disegni sono davvero la
palestra incantata in cui studia le posizioni, spesso caricate, quasi
caricaturali, della sua nascente pittura: gesture acerbe, angolari,
che paiono voler sfuggire al malessere della claustrofobia anatomica,
riverberare lindolenza malata della quotidianità. Occhi
vitrei e cavi, stupefatti, donne violate e trascinate per i capelli.
Che è lo stesso gesto dimperio anatomico della Lezione
di chitarra , un quadro che Balthus stesso volle sottrarre alla
curiosità, per non ingenerare maldicenze: una donna «accorda»
una pupattola rigida e stopposa, quasi un manichino in catalessi,
quasi fosse un proibito strumento musicale (maître è,
del resto, insieme maestro, amante, padrone). Come bene suggerisce
Jean Clair nel catalogo Bompiani, la conoscenza, anche sessuale, è
sempre un atto dimperio, di sopraffazione: come capita alla
luce caravaggesca che irrompe irreparabile in quellaltro
capolavoro feroce che è la Chambre , prodigio di
«materia» scura, torpida. Sono interessantissime, qui,
pure, le presunte copie che il pittore diciottenne, in pieno clima
Valori Plastici e saggi di Longhi, avrebbe fatto di Piero della
Francesca e di Masaccio: in realtà non sono copie pedisseque,
ma proterve, in cui abbassa i toni, affretta la pennellata, insomma,
pensa e progetta la sua modernità «altra».
Anche
quelluomo misterioso che attraversa la Rue con un legno sulle
spalle, pare la trascrizione cifrata della Leggenda della Vera Croce.
Ma qual è il vero enigma? La vera sorpresa di questa mostra
che turba è che il segreto di questo maestro- amateur ,
che faticava a dipingere (modernissimo, ma senza le stigmate della
modernità) in fondo non è svelato, ulcera ancora.
Rimane davvero il Grande Inesplicabile. Come nel Nuovo Mondo di
Godard, la catastrofe atomica della Modernità è già
esplosa, ma nessuno ancora sembra essersene accorto.
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