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Marco Vallora
LA STAMPA
Sabato 8 Settembre 2001

BALTHUS lezioni d’amore

SI APRE DOMANI A VENEZIA LA MOSTRA DI PALAZZO GRASSI: È LA PIÙ GRANDE RETROSPETTIVA MAI DEDICATA AL PITTORE SCOMPARSO LO SCORSO FEBBRAIO

Marco Vallora

 VENEZIA CHISSÀ se era consapevole, il gran decano della fotografia Henri Cartier-Bresson, 93 anni, di star «scattando» così, pur senza aver con sé la mitica macchinetta, una delle ultime sue leggendarie immagini, un’icona del secolo finito. Nel cuore della corte coperta di Palazzo Grassi, di fronte a quel capolavoro misterioso che è Passage du Commerce Saint-André , indifferente a tutto quello che gli turbina intorno, è lui, il vecchio amico d’una vita di Balthus, il sacerdote laico di tante immagini memorabili, a consacrare davvero quest’eccezionale retrospettiva, la più completa sinora di quelle dedicate al segretissimo, reticente protagonista della pittura del Novecento. Con la sua coppoletta sghemba da turista distratto, l’apparecchio acustico in bella mostra, seduto a gambe divaricate sulla canna da passeggio trasformata in seggiolino da gita, come se davvero il mondo non esistesse, Cartier-Bresson rimane rapito in contemplazione di questo quadro minerale e minaccioso, che non svela la sua chiave, ma lentamente penetra e avvelena lo sguardo dei primi visitatori, come una febbre spenta, ma non meno urticante. Ha appena sussurrato all’impeccabile curatore Jean Clair: «Ma perché tutte queste parole... La pittura di Balthus esige il silenzio». Dopo pochissimo è isolato, meridiana piantata al centro della sala: s’è formato come un cono vuoto, intorno a lui e al fascino strano di quella tela, che per decenni era rimasta segregata in un caveau d’una banca svizzera, e nemmeno più il suo artefice, scandalosamente, l’aveva potuta reincontrare.
Nell’austera, discreta mise en scène di Gae Aulenti, la vasta tela ha trovato il suo luogo ideale in questa sorta di preambolo simbolico alla mostra, che oltre a disegni e documenti presenta un terzo circa della sua produzione dipinta: un centinaio di preziosissime opere, salvo le inamovibili. E si capisce perché Balthus abbia sempre preteso un’illuminazione naturale, zenitale, da museo vecchiotto. Pur nel poco tempo in cui si può ripassare davanti a questo torvo capolavoro, effettivamente la sua pittura, ogni volta, meteorologicamente, cangia di continuo, vibra, rabbrividisce, si reinventa. L’artista, emulo della pittura quattrocentista italiana, usava la caseina, un collante naturale, che rende come friabile, fermentante, biologicamente vivo il caglio di quest’impenetrabile pittura. Una pittura che talvolta, confessava, gli «crollava addosso»: come una parete mal congegnata. Ed è curioso, Balthus, come se il Rinascimento non fosse mai sopraggiunto, ha spesso concepito la prospettiva dei propri paesaggi come gotica, «verticale»: parete senza profondità illusiva. Un nugolo di dettagli che si arrampicano sugli specchi della visione.
La mostra procede cronologicamente, dai primi magnifici studi d’autoritratti adolescenti, dal suo librino Mitsou , d’incisore dodicenne e prefato da Rilke, sino all’ultima tela, incompiuta. E’ significativo che un artista che ha sempre proclamato la spersonalizzazione dell’arte (un pittore non deve esprimersi, ma lasciare cantare il mondo) abbia poi così tormentato i propri tratti fisiognomici, quella sagoma magicamente sfuggente e insieme tagliente, morbidamente dura (e non dimentichiamo che morbide , in francese, ha la sfumatura di perverso, morboso). Quando, nel ’34, illustra Cime Tempestose della Brontë, ammette: «La mia giovinezza ha conosciuto un turbine di sentimenti, che ricorda quel romanzo». E non a caso impresta ai personaggi i suoi tratti e quelli, onnipresenti, della prima moglie.
Questi disegni sono davvero la palestra incantata in cui studia le posizioni, spesso caricate, quasi caricaturali, della sua nascente pittura: gesture acerbe, angolari, che paiono voler sfuggire al malessere della claustrofobia anatomica, riverberare l’indolenza malata della quotidianità. Occhi vitrei e cavi, stupefatti, donne violate e trascinate per i capelli. Che è lo stesso gesto d’imperio anatomico della Lezione di chitarra , un quadro che Balthus stesso volle sottrarre alla curiosità, per non ingenerare maldicenze: una donna «accorda» una pupattola rigida e stopposa, quasi un manichino in catalessi, quasi fosse un proibito strumento musicale (maître è, del resto, insieme maestro, amante, padrone). Come bene suggerisce Jean Clair nel catalogo Bompiani, la conoscenza, anche sessuale, è sempre un atto d’imperio, di sopraffazione: come capita alla luce caravaggesca che irrompe irreparabile in quell’altro capolavoro feroce che è la Chambre , prodigio di «materia» scura, torpida. Sono interessantissime, qui, pure, le presunte copie che il pittore diciottenne, in pieno clima Valori Plastici e saggi di Longhi, avrebbe fatto di Piero della Francesca e di Masaccio: in realtà non sono copie pedisseque, ma proterve, in cui abbassa i toni, affretta la pennellata, insomma, pensa e progetta la sua modernità «altra».
Anche quell’uomo misterioso che attraversa la Rue con un legno sulle spalle, pare la trascrizione cifrata della Leggenda della Vera Croce. Ma qual è il vero enigma? La vera sorpresa di questa mostra che turba è che il segreto di questo maestro- amateur , che faticava a dipingere (modernissimo, ma senza le stigmate della modernità) in fondo non è svelato, ulcera ancora. Rimane davvero il Grande Inesplicabile. Come nel Nuovo Mondo di Godard, la catastrofe atomica della Modernità è già esplosa, ma nessuno ancora sembra essersene accorto.

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