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MARINA PIZZI

La litania del giorno dopo


La litania del giorno dopo



Porgi la coroncina di petali

a chi salta in aria senza passare

per la modica cifra

degli angeli fratelli

né tra quelli che si mischiano alla cenere.


Salvi i marchi di tutti i commerci

troneggiano nei non-luoghi di chi vaga

cliente della noia solo a guardare

altri che non guardano guardando.


Dominio di coriandoli l’amor mancato

fin da quando le more dell’estate

stanno alle gerle del lunario al batticuore

di chissà quale appuntamento

litania del giorno dopo

poco fata di darsena.

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Energie del secolo l’abisso

il tuo nome consumato

in tralice

senza l’abbraccio in cima al cipresseto

dove finalmente pianga

l’amara cornucopia in farsa tutta.

Mai tornato dalla trebbia del deserto

ti corro al collo amante più che unico

confesso che ti gioco grandine di dentro.

Costanza di natura il tuo ventre

stambecco sulle resine di ogni lapide.

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Nonostante la chimera

dentro mi risieda

azzoppo il mio forziere

nullo dal fuori

nullo dal dentro.

Nessun resto ne rimanga

appena questa stanza

dichiari secessione

scisma senza secolo

né con la gara un altro grado aggiunto

lo spalto del rimosso quando godevo il seno.

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Ti guardo con il brevetto sulla fronte,

ma non sei salvo.

Gattabuia eloquente questa nascita

voglia la soglia della bestia non macellata

della pace la lezione in ogni zigomo.

A monte non verrò per darmi penitenza

né da mane a sera a lavorare il teschio

che di persino ed anche nelle mani

degli amati amanti frulla.

Coriandoli di comete averti

semmai da adesso non verrà la giungla

del coma sempre ragazzino.

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Cornucopia di stenti

zero a zonzo

sillabario di gelo il tarlo del cielo.

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Dì per dì finì

la forza d'edera del muro

il cofanetto delle mani.

Sconcio di terra perdite di Dite.

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Di un tragico scarlatto il tuo mestiere

breviario senza pace

colma alluvione.

Biblioteca senza silenzio la tua resa

braccata dalla casa senza pace

piena di pece in coda alla pendenza.

Non basterà commettere una nuvola

farsi di nuvola, nulla farsi nulla, né fato di cristallo

caso di fanga. Strapiombi di assassini

accatastano le salme. Bambini, i rondinini

alle sevizie.

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Non darmi ernie al vólto né costi eccessivi

tra marine di pece cedole di affitti

tra disdette ferite palco ai condannati.

Altra dovizia di vite alla vendemmia

mai avverrà dal cauto ottimismo

né dal faro amato dalle stelle

velatissime ormai rese scialbe da Las Vegas.

L’aria ariana degli dèi cattivi

anche nel sonno uccide

rondinelle e rospi.

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Strappo il mio ritratto voglio sparire

nelle lontane anse

nel se del cielo.

Per un tiro mancino la mia nascita

volse al silenzio della pena àtava

all’ira della chiosa contro il romanzo

alla non novella.

Semmai ti venga di scortarmi amico

porta con te l’urto del ferale

calamaio in cui io possa

legarmi mani e piedi per non restare.

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Apportale la voce che sia l’ariosa

altana di una volta con la riva,

in perno alle stagioni tutte sapide

per la tema del pozzo non concessa

all’ilarità del fato.

Saltello di cometa veder natale

finalmente dall’arresto della pece.

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Col muso in appello per una ciotola

(unico strazio di candore

strazio candido)

vieni nel singhiozzo

segnato dalla giuria.

Nemmeno con uno stratagemma posso salvarti

dacché il museo del cimitero di guerra

verte, lo sai, su condoni senza corpo.

Le belle stanze delle faccende madri

uccisero chiunque, compresi i fuggitivi

e le violette delle parvenze.


L’inferno delle braci dette altana

al sale che si riflette dentro i libri.

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Il vento piccolo di settembre

faccia breccia nel coma

dell’alfabeto.

In una calunnia di agosto

l’ago del tuo bene se ne andò

per settembre.

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Le fole in seno sono le madri

pendule dai fossi

regali con le pene delle perdite.

L’atrio minore, il portico minore

ho salvati, l’androne l’ho perso

nel furto delle scarpe.

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Parli ormai con l’ombra nella voce

che organetto di brace pare alluderti

quale fosti quando qui sul petto eri

uomo e ragazzo in forma di gaiezza.

Una grana di cielo fosti a lungo

anzi sul ciglio della strada vuota

ti venga accolta la foggia che ti spetta

così non piangerò giammai mai più.

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Salutami la gioia,

di me ho fatto scempio

nell’alone del vuoto che scombina

ti dirò la rondine vanesia

asessuata e sola

il pianto ossuto da olio santo.

In breve la brina del mio nascere

ebbe la frusta della stalla

la censura della paura

la foga della giostra senza salirci.

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Una camera di conforto

quasi un eremo

nel modo della rondine vicina

e del ciliegio carico.

Così dal bivio della rotta vuota

le perle senza gancio spazieranno

in terre senza maghi né vestali

preparati all’attacco.

Nessun amante pianga sul disperso

nel grumo della piaga che lo rese

cenere viva strazio senza resa.

La remissione del contagio sia comunque

il balbettio del plasma più benigno

felice oltre i lingotti di tesori in cielo.

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A meno di concerti bene affettivi

non partirà l’arrivo della rondine

giammai giammai più

fasti di vasti gridi.

Il natale del comignolo di spari

attenda alla risposta ogni stamberga

tutte le patrie in un circo di felicissimi

funamboli.

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Assunto ad abaco il sudario

so la maretta della corsa in gioco

con la certezza di lasciare

la fune del coriandolo

senza la lode del magistero al fato.

Al vetriolo la pena di scemare

sotto lo strascico dell’ultima sposa

la costa senza terra e senza mare

nemmeno nella foce a delta l’ultima

miniera.

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Ne uscì la darsena con un furore

di enigma. Il periglio dei mozzi fu la pena

di tutta una vita. Confinata la rotta

del grande amore grande che declina

la lira del poeta in fossa e tomba.

Anche il Natale non riesce ad accendere

la noia dei bambini per la gioia,

nelle falle del muro l’orizzonte.

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Germoglio in quiete l’ozio della riva

oltre il gendarme della falce appesa

nell’attesa. Sì, il calendario è ripido

dilemma, quanto fazioso ragazzo

di curva di stadio.

Uncinate le frontiere della mente

oltre cortina spedisci, scendi da te

la piramide egoista.

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Nel palio della luce il tuo volto

quando morente ti cedevi il passo

alle campane marinate a scuola.

In un apice d’inverno

in un apice d’estate

la selvaggina delle piaghe

quando la gemma manca già per sempre,

intatte le mansioni delle resine

il sì di pietra il no dell’inganno.

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Nei molti addebiti al mare di sfinge

trovo la luna grafica dei gatti

quando ai bambini fingono le favole.

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Anche le tenebre sono di scarto

nel basto dell’attendere

malta la rifinitura.

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Dalla cortesia di un alligatore

andrà sbranata

questa convalida a vita inarrivata.

Dalle morie vastissime con spalti di fenice

crepa, rinasce (crepi, rinasca)

l’apologo del sale

quelle vendemmie accorse in ogni battito

dal tetto alla cantina per incanto

di spasmo per abbraccio.

Sale intanto sempre più in alto

l’arsione di ogni condannato.

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Atelier di cielo averti a vita

appena poco etimo di strazio


con un pensiero che spesso mi sbilancia

vòlgo al termine in scatole cinesi.

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Le strategie del giorno addietro

corrotti indici.

Tradotti in gergo i crampi

reso innocuo amore

un ululato il bavero al passante.

Speranzosi crisantemi di dettagli

con le meningi fioccano preghiere.

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In questi gironi di giorni

ho reso l’indice

per la chiarità del fraterno

contro il frainteso, pro la rotta

acerrima compagna

con lo zero nel vólto e le stazioni divelte.

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Tra messi d’erba spina e viottoli amorosi

l’arsa costanza d’un breviario d’epoca

quando l’appello della mani giunte

convinse solo apolidi e porti in pozzi:

senza la gioia lo sguardo delle steli.

Assassinate dal vento le gite

nate al martirio delle mani vuote

appese per i polsi del sale in cattedra.

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Hanno abraso l’indice quasi del

tutto cancellato. La casa recintata dalla cancellata

gli somiglia. Tra staffette di erbe

ha visto i mesi dalle zolle epifaniche

vedette di vendette oltrepassare senza

arrivare. Orfanotrofio del filo d’oro

lo sguardo del servo prima dell’alba.

Nel panico delle evidenze la rupe

almeno simuli il corpo delle atlete

quello del salto.

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Con il martirio nella voce so apprendere

decesso dalle pertiche del fato

le migliorie del sale senza affanno.

In fatto di calamita il mio martirio

ha voce raganella quasi con gioco

infante. Forte di un nuovo sillabario l’antro

mi farà regalo della gaia cetra

molto convinti gli amorosi sensi.

Augusto nel berretto del monello

il cucciolo del gusto ritrovato
nel chicco dell’aureola dell’angelo.

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Senza un gocciolo di stasi voglio andarmene

guarita dalla ronda dell’eclissi.

La forca che tortura anche il sorriso

non sia madrina di nessuna sfera

e la domanda crepi in fondo al pozzo.

Senza la lira del poeta

l’utile dismetta

e finalmente un atrio senza scuola

sappia l’alfabeto delle genti.

Nessun altare appaia all’orizzonte

nell’onta di un presidio di comando

in supplica perenne.

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