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MARINA PIZZI |
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La fionda del sale |
La fionda del sale
A giugno me ne andrò con l’erba sana vicino al grano che ruberò patente senza alcuna paura di lacuna. ***** ***** ***** L’incuria di tanto bivacco non elide frottole spasimanti di fato, fato altro di altro stato, intaccata l’ora intaccata a morte intaccata madonna elemosina di credo, la statua è la domanda. ***** ***** ***** Nere aurore nere guazze senza infanzie: senza di te sarà minore il cosmo le lucertole non più fulminee né guardinghe, non condanne al listino delle merci cineree, ricordi di strazio. Nel conclave di lasciarci le penne le vette di cipressi fanno ridere. Con le gimcane negli occhi perdo le strade, mancate le scoperte per cinture serrate alle vestali delle nebbie. Senza pedine di giochi da sorpresa la mitomane allegrezza di chi non sa. ***** ***** ***** Con le stimmate vuote miserrima la manna del seno al latte la frode di fiorire, il sudario d’urlo. Elisa la madre che mi elise in palmo al davanzale la conturbante teca del ventre di non capire che lacrime di termine aurore di pozzo e nel singhiozzo il forse più medesimo che singolo polare l’orizzonte eliso. ***** ***** ***** Da queste solitudini d'imboscata cali il sipario, sia riso il divario dell'attesa. Ascenda a te il mio preludio che ludo ci sia amore. Perché col sale nelle nuvole non siano perdite al nemico il pozzo ottuso: so da molto la furia che ebolle in stemmi di panico... portami fuori, oltre la siepe che primavera ripristina senza rispetti di gioielli remare scavalcata la bugia nel crollo del sipario. E per domani da oggi non vengo, a giugno me ne andrò con l’erba sana. ***** ***** *****
Tra pertiche che non portano in alto né nel basso anfiteatro del vicolo, il firmamento sciami dal cassetto per un percorso di celle d’eremo. Combusto in un falò tutto il dispendio dell’appello ottuso della rima che per divini ci illuse servi e assassini. Col fango nella giacca vagano gli esilii dalla mongolfiera al tonfo.
Venga la luna di mattina raccolta in bicchieri crepati. ***** ***** *****
Con l’ossario nel viso semipaffuto nonostante età la vittima prossima sì simile da ben prima. Gerla di occaso il sogno di toccarti salvo al marsupio che ci accoglie entrambi bastevoli fidanze di gran giostra.
Possentemente assente il senso della stanza. ***** ***** ***** Il poeta è un ladro di cerini di fiammiferi, serve quando i gestori delle illuminazioni sfaccendano al buio improvviso con gli elmetti nelle fosse dove lo scrigno è vuoto e l’esule è fossile alla fronte di ogni in ognuna nascita. ***** ***** ***** Per scolpire questo andirivieni con la ramazza in mano le arti con la gioia dello strazio. ***** ***** ***** Al bilico della notte il mio consenso quando si sfibra l’erbario del castello e il giardino dei semplici è in rivolta nei fari delle auto razziste. ***** ***** ***** Ammettimi alla vita senza caserme di stravittorie o pegni di scoiattoli tarpati le zampe dispari di chi a terra si disperde (storie e chimere rese per nonnulla) ***** ***** *****
Le storie della sera Le storie della sera quando il cipresso pari fratello solo, d’incanto l’atrio sa aprirsi bosco, parimenti il coro confessi nelle nanne ultimi bagliori i vinti.
Ammettici alla vita che senza rimedio esclude, un fato acerbo lasciaci sotto il guanciale insieme al primo dente da latte caduto nel dirupo. ***** ***** *****
Razzia di sale l’andartene in antro alle staffette delle perdite conserte, ma gridi pur comunque, se giacché sfracelli di erbe viete quando la trappola del binario morto nel fiato delle nebbie sappia pena. Il mare del soldato è la paura dell’attracco del naufragio del siluro del sommerso dell’alloro galleggiante quando la casa è un sorso di arcipessime bandiere e simulacro il credo.
Non velatele il corpo del viso non fu santa né Maddalena di passioni la lena di non farcela. ***** ***** *****
Appena giubilo tornerà di eco una vela rossa nei margini del dado tratto, quasi nodulo di avvento. Così beghino l’antro reazionario terminerà le regole del ghigno verso il contro. Mio padre vestito da tennis sull’alto sedile dell’arbitro chiosa di nuvola il sorriso. ***** ***** *****
Apici di vento questo ristagno badato da agoni. Corsia per il coperchio della bara appena dopo. In pole position il seme del sangue dimentichi le lavagne che ancora inseguono come districare gli occhi. Vidi una volta sola quando domandai la strada senza trovarla. ***** ***** ***** Le ernie faticose di nessuna fortuna almeno l’astio del controvento flettano. O almeno il tarlo (il matematico della cenere) rendano svogliato. In cima alla diga di montagna parlai quasi un’ultima volta con mio padre che già dall’eco era in indirizzo nonostante l’agonia di quartiere l’afa romana rottame e flagello. Lo strapiombo di asfalto sempre lo sfatare di qualunque risata di armistizio.
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