Rashid Masharawi è nato a Gaza,
quarantatre anni fa, in un campo di rifugiati palestinesi, Shati,
fa cinema da almeno quindici anni, una filmografia intensa con
molti documentari e quel Ticket to Jerusalem che lo ha
rivelato a un pubblico più vasto, come anche Arafat,
mio fratello, un'altra incursione lucida e libera nella
complicata relazione tra immaginario e la realtà del suo
paese. Sarà per questo che vedendo L'attesa viene
da pensare a una specie di riflessione autobiografica, anche:
stesse difficoltà economiche, di mobilità,
permessi, check point che snaturano la vita prima degli
spostamenti, una geografia fisica complicata per tutti, cineasti
o no, che rischia di frantumare cuori e cervelli fino
all'ossessione o alla follia. Un po' è così, ce lo
dice sorridendo e con quello sguardo diretto che accompagna ogni
sua frase. I suoi genitori che vivevano a Gaza nel 1948 credevano
di tornare a casa dopo tre settimane. Non ci sono tornati più
e come loro molti altri, e oggi sono almeno quattro milioni i
palestinesi che vivono nei campi per rifugiati tra Siria, Libano,
Giordania, figli, nipoti, pronipoti degli 800000 deportati
durante la Nahba. Poi c'è il fare-cinema, Masharawi che è
anche fondatore del cinema mobile per i campi dei rifugiati e dal
`96 ha anche un centri di produzione e distribuzione di film a
Ramallah, dove vive, sorride ancora: "certo che mi
piacerebbe fare un film senza alcun riferimento politico, che so?
una bella storia d'amore o una commedia come il mio regista ne
L'attesa. Ma un regista palestinese è obbligato a
fare i conti con la propria realtà. Se giri una storia
d'amore, i protagonisti dovranno comunque passare un check
point... Credo che tutti noi palestinesi sogniamo un'altra
Palestina, o di filmare immagini diverse. Ci piacerebbe anche che
questo accadesse nella realtà".
Dunque
possiamo definire L'attesa un film autobiografico?
Almeno
nel background sì, visto che sono nato e cresciuto in un
campo di rifugiati. E i luoghi del film sono tutti campi di
rifugiati, L'attesa è anche un modo per tracciare
una cartina geografica umana della Palestina. Vivere da rifugiati
è duro, per chi sta in altri paesi la Palestina è
spesso un'idea mitizzata, il ricordo quasi di un paradiso...
Cinquant'anni fa era molto diverso: chi sta fuori non ha
conosciuto il coprifuoco, gli insediamenti, la violenza
quotidiana, i check point. Per i più giovani, la gente
della mia generazione e dopo, è ancora un'altra cosa. In
un campo di rifugiati non hai nulla, cioè non puoi
scegliere nulla, tutto ti arriva dagli aiuti, vestiti, cibo...
Anche la cultura che produce il campo non ci appartiene, e così
la nostra immagine, il modo in cui i media ci rappresentano non
ci corrisponde: è l'immagine che la politica ha costruito
di noi.
Come interpreti il ritiro dei coloni israeliani
da Gaza voluto da Sharon?
I media ne hanno fatto un
evento molto più straordinario di quanto è. Noi
conoscevamo Gaza prima del loro arrivo, abbiamo conosciuto i
proprietari delle terre cacciati con l'occupazione. Di loro però
non si è mai detto né saputo nulla, la sola
sofferenza di cui si è parlato è dei coloni
costretti a abbandonare le loro case. E ora possono dire che c'è
una Palestina libera, che 8500 coloni se ne sono andati, ma
sappiamo che non è vero. Perché al loro posto ce ne
sono già oltre 12000 pronti a insediarsi nella West Bank,
mentre per i palestinesi, più di un milione, che vivono
intorno a Gaza non cambierà nulla.
Cioè?
I
coloni hanno distrutto tutto andando via, le terre sono state
massacrate dagli insediamenti e non si possono più
coltivare. Non abbiamo accesso al mare, dunque la pesca è
impossibile ma soprattutto siamo chiusi lì dentro e questo
non permette alcuna economia. A Gaza c'è il 60% di
disoccupazione, i più vivono in povertà, molti
lavorano in Egitto o nei paesi del Golfo e mandano i soldi a
casa... Il punto è anche che nessuno ha voglia di lavorare
lì, dove questo significa lo sviluppo delle stato di
Israele. Sharon col ritiro vuole solo mostrare al mondo che
Israele sta facendo qualcosa, e intanto in patria rassicura i
gruppi più fanatici che svilupperanno insediamenti più
grandi altrove. Per Israele lasciare Gaza è anche un
guadagno. La protezione degli insediamenti era difficile e molto
costosa, e i coloni non hanno mai sviluppato un'economia, vivono
col supporto che gli arriva dall'estero visto che rappresentano
la potenza di Israele e la sua necessità di espandersi e
di cancellare per sempre la Palestina.
È questo
il senso de L'Attesa?
La gente in Palestina
oggi non ha scelta. Viviamo sotto un'occupazione militare, questa
è la realtà che spesso si tace. E questo organizza
tutta la tua vita. Anch'io mi sono trovato nella situazione di
"attesa" che racconta il film, l'anno scorso dovevo
tornare a casa ma non era possibile. Ho un passaporto con cui
posso viaggiare in Europa o altrove ma che non mi permette di
tornare a casa, di superare i check point e i militari israeliani
che col pretesto della sicurezza assediano il mio paese. Molti mi
chiedono, perché non ve ne andate? Ma da noi ci sono
grandi famiglie, i legami con la lingua e i luoghi sono molto
profondi e così la gente prova a resistere rimanendo dove
è nata e cresciuta. Inoltre quando si vive in una
condizione come la nostra restare è un gesto di
resistenza, ogni cosa, a cominciare dalla tua piccola casa per
cui hai lottato, ha un valore immenso. Un giorno quando saremo
liberi forse cominceremo a partire. Ma non ora.
Parlavi
della tua famiglia costretta a abbandonare Gaza nel
`48...
Quando Israele aveva cinquant'anni, mia madre
ne aveva settanta, il che ci dice di un tempo in cui c'era la
Palestina, anche se si preferisce dimenticarlo. L'attesa è
anche esistere, spiegare al mondo e ai media che lì sono
cresciuto, ho giocato coi miei primi amici, sono andato a scuola
e che quei luoghi per questo significano qualcosa per me. Invece
all'improvviso arriva un ebreo americano che ha dietro più
soldi, relazioni più potenti, si installa lì e
tutto va bene. Ecco perché cerco di usare tutta la mia
piccola energia per spiegare che non è così. Mi
viene in mente una frase di Bargut, un grande scrittore
palestinese, che dice "posso perdonare tutto quanto gli
israeliani hanno fatto a noi palestinesi, ma non perdono ciò
che hanno fatto a se stessi come esseri umani". Fare film
per me è questo, raccontare la vita di tutti i giorni.
È
stato difficile girare questo film?
Molto. Per un
palestinese muoversi in Siria o in Libano non è facile. Ma
è stata comunque un'esperienza magnifica, a cominciare
dall'incontro con gli attori che sono tutti rifugiati nei campi.
Alcuni li conoscevo di nome, altri li abbiamo trovati sul
posto... Abbiamo lavorato molto con l'improvvisazione, anche se
c'era una sceneggiatura mi sembrava importante dare spazio agli
attori per lavorare su una struttura che fosse vicina a quanto
conosciamo
Intervista di Cristina Piccino IL
MANIFESTO 03/09/2005
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