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Predrag Matvejevic
- IL SECOLO XIX – 31/10/2001

IN BOSNIA È STATA PERSA LA BATTAGLIA CONTRO L'ISLAMISMO INTEGRALISTA


I musulmani slavi dei Balcani. E' stato probabilmente uno degli errori più gravi compiuti dall'Europa e dagli Stati Uniti nell'ultima guerra balcanica: non aver riconosciuto in Bosnia l'esistenza di una delle comunità islamiche più laiche del mondo. E non esser riusciti ad opporla in quanto tale alle altre forme, più dure e intolleranti, di religione musulmana catalogata sotto il comune denominatore di islamismo o fondamentalismo. In questo caso, l'ignoranza si è lasciata ingannare soprattutto dalla propaganda che veniva soprattutto dalla Serbia di Milosevic e dalla Croazia di Tudjman, e che affermava che questa comunità bosniaca era un “avamposto per la penetrazione dell'Islam in Europa”. Nella città di Mostar, dove sono nato, città che porta il nome di un “vecchio ponte” considerato da quelli che l'hanno distrutto come un simbolo dell'Impero Ottomano, più di un terzo degli abitanti erano musulmani. I miei colleghi e amici di famiglia islamica parlavano la stessa lingua dei croati cattolici e dei serbi ortodossi, erano coscienti di condividere con noi le stesse origini, ci venivano a trovare in occasione di feste cristiane: mangiavano il maiale e bevevano raki quanto noi e di più. Un gruppo relativamente ristretto di anziani osservava con un certo rigore i riti prescritti dalla fede, a volte guardati con ironia dai loro stessi correligionari. La resistenza antifascista è stata impresa comune alle tre comunità. I fifli e le figlie dei membri della resistenza trovavano con facilità un linguaggio comune. Viceversa nel campo opposto, tra chi durante la seconda guerra mondiale aveva collaborato con gli invasori, fero la loro apparizione i primi segni di discordia o diffidenza. Non si cancellò del tutto una memoria inquietante. Gli ultranazionalisti serbi -detti cetnici- massacrarono, soprattutto nella valle della Drina, nel 1942-43, migliaia di musulmani, assimilandoli agli antichi invasori turchi e ai traditori della fede cristiana e ortodossa. Mentre gli ustascia- fascisti croati- tentarono di farseli alleati chiamandoli “fior fiore della Croazia”. Tito finì col riconoscere, alla fine degli anni '70, una nazione musulmana: il nome o epiteto di Musulmano, con la maiuscola, indicava l'appartenenza nazionale dei credenti e anche degli atei; con la minuscola segnalava solo la religione. Questo creava a volte una certa ambiguità, presa spesso in giro dalla nazionalità di fede cristiana, serbi o croati. Si trattava di segnare una differenza che esisteva realmente, creata dalla storia e che, in un paese multinazionale come quello, non poteva essere ignorata. Non ho mai sentito i nostri musulmani parlare di “Sunniti”, “Sciti” e, meno che mai di “Whabi”. Erano semplicemente slavi di “origine musulmana” o “ musulmani” e basta. Probabilmente è una delle ragioni per cui destò la nostra sorpresa, negli anni '50, la nascita del movimento dei Giovani Musulmani, duramente represso.

Uno dei suoi membri, Alla Izetbeovic, futuro presidente della Bosnia, scrisse nel 1970 insieme ad alcuni amici una Dichiarazione islamica, che pagò con diversi anni di carcere. Conteneva un programma che sembrava tanto irreale quanto insignificante: “questa dichiarazione si rivolge ai Musulmani (di Jugoslavia) che conoscono la loro appartenenza e che, nel loro cuore sentono chiaramente da che parte stanno. Dimostra la superiorità dell'Islam, su qualsiasi altro sistema o qualsiasi ideologia”.

Qualche osservazione di carattere storico per spiegare questo caso unico in Europa.

La Bosnia, a lungo spartita tra Bisanzio e Roma, linea divisoria tra Cristianesimo ortodosso e cattolico, rifugio dell'eresia dei bogomiti ( vicina a quella degli albigesi), fu occupata dagli Ottomani nel 1463.

“Cadde sussurrando”, come riportano le cronace.

L'islamizzazione iniziò più tardi, per tappre, soprattutto nei secoli XVII e XVIII. Si fermò con l'ocupoazione austriaca (1878) e l'annessione (1908). Questi fatti, e in particolare la fondazione della prima Jugoslavia sotto la dinastia dei Karagiogievic, costrinsrero parte della popolazione islamica all'esodo verso la Turchia. Tuttavia una grande maggioranza che conservava il ricordo della sua origine slava del sud rimase nel paese e trovò spazio nei partiti politici dell'epoca, fluttuando abilmente tra serbi e croati. I protagonisti di questa stagione non esprimevano la loro differenza in termini di nazionalità.

“Non è possibile” scriveva Osman Nuri-bey Firdus nel 1925 “essere allo stesso tempo musulmani e sentirsi parte di una nazione. L'Islam è più forte della nazionalità”.

Ma questo atteggiamento religioso più che secolare, non risolveva i veri problemi dell'appartenenza e dell'identità. Quando, dopo la rottura della Jugoslavia di Tito con Stalin (1948) si aprì uno spazio più ampio per la libertà di espressione, non tardò a confessare il suo malessere a proposito dell'identità nazionale.

“Di per sé, l'appartenenza alla Bosnia non attribiva all'intellettale musulmano una nazionalità”, scriveva Midhat Begi, un eminente critico letterario bosniaco, musulmano e jugoslavo allo stesso tempo. E aggiungeva: ”L'intellettuale musulmano ha continuato ad essere catalogato per la sua religione agli occhi degli altri e dei suoi propri. Per questo, la questione della sua identità resta la ragione fondamentale del suo malessere, un problema che né la sua adesione ad altre appartenenze nazionali, e neppure la sua integrazione alla civiltà e allo stile di vita europeo hanno potuto risolvere”.

Una testimonianza straziante su questo tema ci viene dal romanzo “Il derviscio e la morte”, una delle opere più importanti della eltteratura jugoslav, pubblicata negli anni '70 e tradotta in varie lingue europe. Il suo autore, Mehmed Selimovi, discendeva da una famiglia musulmana ma rivendicava anche la nazionalità serba:

”Siamo stati separati dai nostri, ma non accettati dagli altri: come un braccio separato dal fiume da piogge torrenziali, senza più correnti né sbocco, troppo piccolo per essere un lago, troppo grande perchè la terra lo assorba. Con un sentimento confuso di vergogna dovuto alla nostra origine e di mancanza dovuto alla nostra conversione, non desideriamo guardare indietro e non sappiamo guardare avanti”.

Durante il mio soggiorno a Sarajevo ho conosciuto bene i due autori citati.

Durante l'assedio della città, accanto all'ingresso della Biblioteca Nazionale incendiata, ho ricordato i miei incontri con loro, nelle sale di quest'enorme edificio dove iniziai a scrivere i primi capitoli del mio “Breviario mediterraneo” e dove ho terminato, tra le macerie, le ultime pagine di “Mondo ex”. Non avevo alcuna idea del “malessere esistenziale” che evocavano: nemmeno mi rendevo conto che potessero provare un “male di identità”.

Tutto il mio interesse come cittadino dalle origini miste, innamorato della Jugoslavia e severo con i suoi distruttori, non mi permise di cogliere questi stati d'animo e questi tormenti.

Ci voleva la guerra, implacabile e sanguinaria per sentirli e riconoscerli? I musulmani di Bosnia-Erzegovina hanno sofferto orribilmente durante la recente guerra dei Balcani. Oggi tutti sanno che Sarajevo è stata ssediata per più di 1300 giorni, che 7000 cittadini di Srebenica sono stati fucilati dali estremisti serbi o che, nei pressi di Mostar, gli estremisti croati hanno costruito campi di concentramento e che questa città, con il suo celebre ponte, è stata rasa al suolo per metà (la metà musulmana).

Questo odio e questa ferocia erano, nonostante tutto, inattesi e sorpresero anche quelli tra noi che pensavano di sapere tutto del nostro paese. E' legittimo domandarsi in che misura questi atteggiamenti siano una sorta di fondamentalismo cristiano, ortodosso in primo luogo, ma anche cattolico, a cui mancherebbe soltanto il dato della fede.

Durante queste crociate ci sono stati qua e là dei volontari muyahidin arrivati dai paesi arabi. Il loro numero è stato assai meno cospicuo di quello che la propaganda, serba o croata, si è affannaata ad affermare. Hanno avuto un ruolo minimo nelle operazioni militari e ancor meno hanno preso parte alle decisioni dellle autorità musulmane. Ma erano lì, prendevano parte a combattimenti sostanzialmente difensivi. Alcuni di loro possono aver avuto legami con Bin Laden, all'epoca alleato degli Stati Uniti contro i russi. Ma le due cose non vanno confuse.

Le ferite della Bosnia-Erzegovina non cessano di sanguinare. Sono ferite che tardano a cicatrizzare. Distrutta e ridotta a una miseria materiale incoffessabile, a una sopravvivenza che dipende unicamente dagli aiuti che vengono dall'esternopiù che uno stato è una semplice regione divisa in tre parti, smembrata in tre religioni, ciascuna delle quali appoggiata da un nazionalismo primario e intransigente. E' un vicolo cieco che non può trovarsi una via d'uscita da solo. Gli aiuti che, nonostante tutto, le consentono di sopravvivere e di avanzare a tentoni verso un futuro incerto non sempre finiscono nelle mani di quelli che più ne hanno bisogno. I paesi musulmani hanno ricostruito quasi tutte le moschee distrutte e ne hanno costruite molte altre di nuove, nei luoghi più prestigiosi. Le condizioni implicite in questo tipo di aiuti cozzano a volte con le tradizioni più profonde dell'islam bosniaco. Esso non aveva conosciuto in passato nessun tipo di wahabismo che ora spira a compenetrare non solo le pratiche religiose. Un laicismo reso fragile dall'aggressione dei “ fratelli slavi” cerca, a fatica, di opporsi ad esso.

Alle ultime elezioni il Partito di azione democratica ( Sda) non ha avuto l'appoggio della maggioranza musulmana. Probabilmente in Bosnia, l'Europa ha perduta una battaglia decisiva contro l'islamismo integralista nel suo complesso: i musulmani bosniaci erano, in maggioranza, inoffensivi, moderati e più laici degli altri.

Nel cuore del nostro continente, di cui condividono i valori fondamentali, meritavano una maggiore protezione. Errori come questi si pagano molto cari.


Traduzione di Cristina Paternò


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