Goodbye Dragon inn,
l'ultimo film di Tsai Ming-liang, già presentato al
festival di Cannes 2003, non ha una distribuzione italiana,
peccato. Un'occasione per vederlo è stata però
offerta dalla seconda edizione dell'Asian film festival [...] che
al regista malese, ma taiwanese d'adozione - studi di cinema e
teatro all'università di Taipei, dove ha debuttato con la
televisione alla fine degli anni 80 e in cui attualmente vive -
ha dedicato una retrospettiva completa, o quasi, iniziata ieri.
Venerdì la proiezione di The Hole, poi Il fiume,
e per l'occasione Tsai Ming-liang incontrerà il
pubblico (ingresso gratuito, alle 17.45, e fino a esaurimento
posti, ma alla sala Trevi non sono molti), sabato (ore 16.15) Che
ora è laggiù?. All'appello mancano il primo
lungometraggio, Boys (1991) e il successivo Rebels of
Neon God (1993). Il regista dunque è a Roma,
accompagnato dal suo attore icona Lee Kang-sheng, che ha esordito
alla macchina da presa con The missing [...]. Pochi mesi
fa i due hanno lavorato insieme anche in teatro mettendo in
scena, ancora, come sempre sullo schermo, un amore impossibile,
con gli attori-corpi sospesi nel vuoto. Abbiamo incontrato Tsai
Ming-liang poche ore prima della presentazione di Goodbye
Dragon inn. Buio in sala, il cinema Fu-Ho di Taipei chiude
per sempre, lo schermo manda in loop Dragon Gate inn
capolavoro ipercinetico di King Hu. Tutt'intorno si aggirano
fantasmi, il passo claudicante della ragazza al botteghino tra le
poltrone rosse, lei cerca il proiezionista, è innamorata,
non lo incontra mai. Due vecchie star del film di King Hu, Shih
Chun e Miao Tien, si (ri)guardano nella pellicola, piangono in
silenzio.
Nei sui film scorre una personale passione
cinefila, qui King Hu, in Che ora è laggiù?
Jean Pierre Leaud...
Sono nato in un tempo in cui i
film si vedevano solo al cinema, non c'erano i dvd, solo così
si possono notare tutti i dettagli. Da bambino a Kuching, in
Malesia, ho visto più di 3.000 film di kung fu, il cinema
di Hong Kong contaminato dall'occidente, studiato e influenzato
da Hollywood, in cui si legge la sua storia coloniale. Quando
però sugli schermi è apparso King Hu ho capito che
era qualcosa di diverso, toccava dei livelli altissimi. Poi c'è
stata la scoperta dell'America e più tardi da studente,
all'università di Taipei, mi sono avvicinato al cinema
europeo. Lì ho conosciuto un nuovo mondo, sono stato
folgorato da Fassbinder, dalla sua storia d'amore tra una vecchia
e un ragazzo nero.
Com'è cresciuto il cinema
taiwanese?
Prima a Taiwan c'era un controllo politico
e militare pressante, si producevano film di kung fu, storie
d'amore e quelle pellicole di propaganda incoraggiate dal
governo. Solo da Hou Hsiao-hsien in poi il cinema taiwanese si è
liberato, ha potuto confrontarsi con la realtà, raccontare
i problemi della società. Ora non c'è più
censura, anzi i media a Taiwan sono i più liberi di tutta
l'Asia.
C'è un nuovo film in cantiere?
Sì,
un nuovo lavoro di cui sono piuttosto soddisfatto. Ancora non ha
un titolo in inglese, ma tradotto suona più o meno come
Una nuvola in cielo. È una produzione francese,
dovrebbe andare al prossimo festival di Cannes, così
almeno si aspettano i finanziatori per facilitarne l'ingresso sul
mercato. È un musical a sfondo sessuale, è la
continuazione di Che ora è laggiù?, il
venditore di orologi ha cominciato a girare film porno, la
ragazza è tornata da Parigi, lo cerca e non lo trova. Ma
lo sviluppo narrativo nei miei film non è importante,
eppure sembra che la potenzialità del cinema si esprima
solo nel raccontare una storia. Io piuttosto mi sforzo di
riprodurre contraddizioni, sorrisi e paure della civiltà
in cui vivo e della generazione a cui appartengo. Il cinema è
un modo di guardare il mondo, è presa di coscienza della
realtà, è riscoperta della vita.
Che uso
fa del musical?
Ci sono vecchie canzoni cinesi a
sfondo sessuale, balletti provocanti, in alcuni paesi è a
rischio censura, e in certi punti la satira è piuttosto
forte. C'è una scena in un bagno pubblico, luogo che
ricorre nei mie film, è un balletto per salvare un organo
sessuale maschile. Il musical non è una fuga dalla realtà,
è piuttosto l'occasione per mettere a confronto due
realtà, per giustapporre piani diversi. La musica, le
coreografie e le canzoni sono come uno schiaffo in faccia, non
sono vie di fuga. Ci sono punti di contatto con The Hole, ma
ora la parte musicale è predominante e più bella. E
come in ogni mio lavoro anche qui, e forse più che mai, il
corpo è centrale.
Intervista di Giulia Sbarigia
IL MANIFESTO 11/11/2004
|