Un'intervista al regista
israeliano Avi Mograbi, a Cannes con il suo film Avenge
but one of my eyes, che non sta in concorso perché
quest'anno il festival sembra inaccessibile ai documentari
Il
cinema nella vita di Avi Mograbi è arrivato presto, quando
ragazzino divorava tutti i film possibili - soprattutto americani
- nella sala del nonno a Tel Aviv e anni dopo sarà lui a
aprirne una, per far circolare i film palestinesi. Nel frattempo,
Mograbi aveva scelto anche il campo della macchina da
presa, legato ancora al suo vissuto di studente che nell'83
rifiuta l'esercito e la guerra del Libano pagando con un mese di
prigione. E da allora non abbandona la militanza per la fine del
conflitto nel suo paese, Israele, esplorando la stato di guerra e
la politica del governo, con l'umorismo e il talento di un
racconto in prima persona. A Cannes il suo ultimo Avenge but
one of my two eyes non lo hanno messo nel concorso
inaccessibile quest'anno ai documentari. Ne parliamo con Avi
Mograbi che sulla camicia ha bene in vista la spilletta Break
down the wall!. Ce l'ha pure il figlio, oggi diciottenne,
sin da giovanissimo nel movimento contro l'occupazione tanto che,
ci racconta Mograbi, a sedici anni in una carica gli hanno
sparato addosso massacrandogli una gamba. Avenge but one of
my eyes è stato acquistato in Italia
(Fandango).
Avenge but one of my two eyes
rovescia la rappresentazione dei due grandi miti di Israele,
l'assedio di Massada e Sansone, per applicarli al conflitto con
la Palestina. Come sei arrivato a questa doppia relazione?
Ci
sono tre punti di partenza diversi nel film. Intanto le
telefonate con un amico palestinese che quando sono cominciate le
operazioni militari nei territori occupati non poteva più
muoversi. Era l'aprile del 2002, durante la seconda Intifada, e
l'esercito israeliano è stato molto violento. Ho
registrato le nostre telefonate ma non sapevo ancora che ne avrei
fatto un film. Anche per How I learned to overcome my fear and
love Sharon pensavo a un film stile Roger and me su
Sharon. Poi è diventato un'altra cosa, dove Sharon non è
solo il mostro che pensavo ma anche una persona
interessante. Le telefonate con l'amico parlavano di violenza, di
cosa significa vivere sotto assedio, del suicidio che diventa
normale in una condizione che nega alla vita ogni valore.
È
da qui che sei arrivato a Massada?
In quei giorni è
uscito un libro di Nachman Ben Jude, una ricerca sociologica sul
mito di Massada riletto in modo molto critico. La stessa
interpretazione però si trova anche in La guerra degli
ebrei di Flavio che era uno storico romano ma prima ancora
era stato uno dei primi ribelli tra gli ebrei. Flavio ci descrive
gli zeloti, gli abitanti di Massada, come ladri, assassini,
banditi, che avevano massacrato ebrei di altre comunità
vicine per espandere il proprio territorio. E erano anche dei
terribili nazionalisti, nella comunità ebraica c'erano
divisioni e gli zeloti sono stati tra i primi a praticare
l'omicidio politico. La mitizzazione di Massada comincia durante
la guerra: l'avanzata di Rommel nel deserto terrorizza la
comunità ebraica in Palestina, si teme che i tedeschi
possano fare lì quanto stavano facendo in Europa e così
c'è bisogno di creare uno spirito di resistenza. Massada
viene presa dagli educatori come la storia da riscrivere e da
consegnare alle generazioni future. Gli aspetti negativi vengono
eliminati e gli abitanti di Massada appaiono come eroi. La
dicotomia «morte o libertà» che ne riassume la
parabola diventa nel 49 un riferimento per la nascita dello stato
di Israele. Così nei dieci anni successivi Massada entra
come mito fondatore nella cultura israeliana, non quella ebraica,
che è un'altra cosa...
Hai definito Sansone il
primo esempio di kamikaze...
È così. Nei
giorni più difficili dell'Intifada, con gli attentati
ovunque, si è cominciato a dire che questa cosa fa parte
dell'Islam, che ce l'hanno nel sangue, è la loro
cultura... A casa ormai abbiamo quattro telefonini, quando c'è
un attentato si deve poter parlare subito coi familiari. Quello
che non capisco è perché si vuole in Israele
trovare una causa nell'Islam e non nelle nostre azioni. Anche
Sansone è una figura molto importante per Israele. La
Bibbia però non lo celebra come un eroe, lo è
diventato grazie al nostro sistema di educazione nazionale. Se
pensi a cosa ha fatto, lasciare che i piloni cadessero su gente
qualunque senza fare distrinzioni tra giovani, vecchi, innocenti,
colpevoli, si può parlare davvero del primo kamikaze nella
storia.
Nel film, Israele appare come una democrazia
potenzialmente elevata che però non riesce a
realizzarsi.
È la nostra enorme contraddizione.
Un cittadino israeliano ebreo dispone di una meravigliosa
democrazia e di tutti i diritti, io stesso faccio film critici
eppure sostenuti dal ministero della cultura. Anche se poi mi
chiamano e mi chiedono se sono anti-israeliani. Casomai sono
critici, che è un'altra cosa. Al tempo stesso Israele
tiene sotto occupazione tre milioni di palestinesi privati di
ogni diritto. La mia famiglia e i miei amici lottiamo perché
non si può vivere tranquillamente se la stessa libertà
non diventa di tutti. Spesso porto gli amici davanti al muro. A
Gerusalemme basta uscire dal centro e andare verso Abbudis, una
periferia che il muro ha tagliato in due. Era un quartiere vivo,
oggi non c'è nulla.
Sembra dalle tue immagini
che oggi i palestinesi non possano davvero più
muoversi...
Sì se prometti a Israele di non
tornare più sei libero di andare dove vuoi. Prima il
passaggio era la Giordania. Ma da qualche tempo il governo
giordano permette ai palestinesi dei territori di entrare solo se
hanno lì un parente con lo stesso cognome. Dicono che è
per evitare la deportazione di massa dei palestinesi in Giordania
ma hanno paura che ne arrivino troppi. La Giordania è un
regno e la famiglia reale fa parte di un'etnia minoritaria poco
amata dal resto della popolazione dove ci sono molti palestinesi.
Una rivolta sarebbe pericolosa.
Vedi una soluzione?
La
fine dell'occupazione. Il problema è che nei territori ci
sono oltre 400.000 israeliani e come farli andare via senza
scatenare una guerra civile? Il lavoro è enorme e non so
se il governo abbia voglia di iniziarlo.
Intervista di
Cristina Piccino IL MANIFESTO 21/05/2005
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