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CINEMA

La guerra di Monicelli

Due ore. Per due ore, Mario Monicelli si è fatto intervistare in pubblico sulla “sua guerra” e sul suo cinema, sulla liberazione di Roma, l'arrivo degli americani e la gioia della ritrovata libertà.

Intervistare il regista è stato un piacere condiviso da decine di persone che ascoltavano in silenzio, a volte ridendo, a volte commuovendosi, nel riascoltare i racconti su Gassman e Sordi, sul loro modo di lavorare e sulla nascita di tanti film del maestro. Lui, tra l'altro, a 89 anni, ringraziava chi lo chiamava maestro, ma continuava ad insistere che si facesse a meno di essere così pomposi.

La singolare intervista pubblica si è svolta, nei giorni scorsi, presso la Biblioteca Appia, nel quadro di una singolare iniziativa delle Biblioteche di Roma, organizzata per il sessantesimo anniversario della liberazione della capitale, parlandone, appunto, con personaggi della cultura, del cinema e della politica. Le interviste pubbliche si concluderanno alla fine del mese, a ridosso con le celebrazioni per Roma liberata. L'iniziativa ha mobilitato almeno una decina di giornalisti. Al sottoscritto, appunto, è toccato Mario Monicelli.

Abbiamo subito chiesto al regista di raccontare brevemente della sua famiglia.

Sono nato a Viareggio nel maggio del 1915 e sono figlio dello scrittore e giornalista Tommaso, amico e parente dei Mondadori. In realtà sono mantovano e in casa mia non si è fatto altro che parlare di libri, articoli e giornali. Mio padre, socialista, è stato persino direttore dell'Avanti e poi interventista nella Grande Guerra. Ha avuto – spiega sornione – una infatuazione nazionalista, ma il delitto Matteotti lo ha riportato alla realtà delle cose ed è tornato ad essere socialista vero. Prestissimo siamo venuti a vivere a Roma.

Che cosa è successo con il cinema? Come è nata la passione?

Da bambino, mia madre mi infilava dentro il “cinemino” vicino a casa e io rimanevo tutto il pomeriggio a guardare quelle straordinarie e misteriose immagini in movimento. Una cosa bellissima. Guardavo le comiche due o tre volte. Attenzione: il cinema era ancora muto. Le prime esperienze le avevo poi fatte a Tirrenia, dove c'erano i primi stabilimenti cinematografici. Un mio amico di scuola era il figlio del direttore degli studi.

E a Roma?

Ho continuato nei miei contatti, mi sono occupato di documentari e ho cominciato a scrivere testi per le riviste di Totò e Macario. Ho realizzato, nel 1935, anche una specie di documentario dal titolo: I ragazzi della via Paal. Più tardi sono finito sotto le armi. In cavalleria. Pensavo: almeno imparo ad andare a cavallo. E così è stato. Devo dire che c'erano molti ragazzi che andavano volentieri a fare il militare. Così – pensavano – almeno giro il mondo. Ricordatevi che in Italia, il 70-75 per cento delle persone, erano poveri analfabeti.

Qualcuno mormora e un signore, in fondo, dice: “Che cosa sta dicendo, che i soldati andavano volentieri alla guerra?”. Monicelli risponde:

Non dico questo. Ma cerco di far capire che quella era la situazione. Io l'ho vista così. Non dimenticate che ero in divisa in quei mesi. Insomma, stavo tra i soldati.

Ma nell'ambito del cinema, la censura fascista era forte? Che cosa voleva da voi il regime?

La verità è che il regime – secondo me – non chiedeva grandi cose. Prima di tutto la famiglia. Non si poteva toccarla: niente amanti, niente abbandoni e avventure. Non so perché, ma quando si proponevano certi film dovevano essere ambientati o in Francia (la Francia democratica e decadente) o in Ungheria. No ho mai capito bene perché l'Ungheria. La nostra Ungheria era, a Roma, il quartiere Coppedè. Buffo vero? Comunque, il fascismo ci teneva al cinema, eccome. Aveva costruito Cinecittà. Ci tenevano anche i tedeschi e i sovietici. Certo, i sovietici hanno fatto capolavori ineguagliabili. Sì certo, c'era un sacco di gente a Roma che scriveva per il regime. Ma era per campare. Nessuno credeva a quel che scriveva. Poi, c'era la fronda. Per esempio intorno alla rivista Cinema, diretta dal figlio di Mussolini. Sapevo che c'erano anche i comunisti che, nella Roma occupata dai nazisti, organizzavano gruppi di resistenza, armi in pugno.

Lei dov'era il 25 luglio del '43, quando Mussolini fu arrestato per ordine del re, e l'8 settembre, quando fu annunciato l'armistizio e l'esercito si sfasciò?

Prima in Jugoslavia, dove i serbi e i croati già si stavano scannando, e poi in Africa. Che ho fatto? Arrivato in Italia, mi sono messo in borghese e mi sono avviato verso Roma, camminando sui binari del treno, insieme ad altre migliaia di soldati. Quindi non ho visto la battaglia di Porta San Paolo o altro. Ho trovato i nazisti in casa e basta. Ho trovato i nazisti in casa e basta. Ricordo i rastrellamenti, la storia del Ghetto, la strage delle Ardeatine. Non sapevo che fare e sono andato da un mio vecchio amico anarchico che si chiamava Comunardo.

Un nome è un programma, azzardiamo. Spiega ancora Monicelli:

Con Comunardo non abbiamo fatto molto. Distribuivamo manifestini antifascisti e la stampa socialista e comunista. La mia guerra è tutta qui. Verso l'alba, il 4 giugno del '44, nella semioscurità ho visto, in centro, l'arrivo di migliaia di americani che avanzavano nel buio senza fare alcun rumore. Io, abituato al fracasso degli scarponi dei soldati italiani, ero allibito. Gli americani erano armatissimi. Accanto, avevo un venditore di “bruscolini” e castagne al quale stavo consegnando manifestini antinazisti. Anche lui era silenzioso. Poi sbottò: “Ahò, ma guarda un po' a chi avemo dichiarato guerra con i nostri quattro fucilini”. Tornai subito negli ambienti di Cinecittà. Era appena uscito Roma città aperta che aveva avuto un gran successo all'estero. Rossellini aveva preso, per lavorare, spezzoni di pellicola in mezza Roma. Ricominciai a scrivere per Totò in collaborazione con Steno. Poi Ponti ci disse che dovevamo utilizzare lo stesso Totò ancora sotto contratto e così nacquero Totò cerca casa, Vita da cani e Guardie e ladri.

Il “re della commedia all'italiana” continua a raccontare e spiega di essersi spesso rifatto a piccoli-terribili fatti di cronaca. Come per “I soliti ignoti”. Chiediamo ancora se è vero che da sinistra e anche dal Pci arrivavano critiche anche dure al suo lavoro.

Certamente, perché avevano la fissa che gli operai e i poveracci dovessero essere sempre serissimi e col grugno. Mai sorridenti. Io spiegavo a Mario Alicata, importante dirigente del Pci, che un giovane, anche se disoccupato, trovava sempre il modo di sorridere e divertirsi. Insomma, avrei dovuto filmare una storia tipo la giovane operaia messa incinta dal figlio del padrone che viene salvata dall'operaio. Che poi, ovviamente, la sposava. Io, da sempre di sinistra – spiega con raffinata e giocherellona ironia – risposi che non era davvero roba per me. Insomma, ero poco serio. Anche all'estero rifiutavano la commedia all'italiana e dicevano che Sordi interpretava esseri ripugnanti che non facevano affatto ridere. E io spiegavo che l'Italia era la patria della commedia dell'arte, del Ruzante, di Piero l'Aretino, di Dante, ma anche della Mandragola e del Boccaccio. Dunque possiamo essere eroi e cialtroni, coraggiosi e vigliacchi, buonissimi e carogne, generosi e squallidi.

Ma il cinema è arte? Lo chiediamo, consapevoli che si tratta della solita vecchissima e scontata domanda?

Ma quale arte. E' un prodotto collettivo, frutto del lavoro di molte persone. E', insomma, artigianato. Era arte il cinema muto: quelle figurine che si muovevano. Guardatelo oggi un film muto e vedrete. Poi il cinema ha cominciato a corrompersi con il parlato, la musica e, da ultimo, il colore.

Mi dica qualcosa della “Grande guerra”.

Ho subito sentito che il “tono” del film era buono e valido. Gassman e Sordi sono stati bravissimi. Il film lo sentivano tutti. Abbiamo chiesto ad Andreotti di aiutarci per le armi d'epoca. Ha detto di sì, ma quando ha letto il copione non si è fatto più vivo. Quei “lavativi” di Sordi e Gassman, io li avevo visti davvero sotto le armi. E anche mio padre che me ne aveva parlato a lungo. Loro, da grandi professionisti, hanno recitato anche in quel film, con tutto il corpo. I giovani registi fanno lunghi primi piani, ma gli attori devono esprimersi con tutto il corpo. Questo è il segreto. Ci siamo serviti del celebre libro di Lussu sulla prima guerra mondiale. Altri scrittori ci hanno cacciato quando spiegavamo il film. Dicevano che ne avremmo fatto la solita commediola da ridere.

E perché “L'armata Brancaleone”?

Ero stufo di quei tempi medievali raccontati a scuola, con damine e cavalieri, belli e incorruttibili. Non è vero niente. Erano venditori di tappeti e cialtroni, scassati e miserabili e si scannavano per castelli e soldi. Ma quale Santo Sepolcro. La civiltà, allora, era dall'altra parte. Proprio L'armata Brancaleone e I compagni sono, di quelli che ho fatto, i miei film preferiti. Ora, sto preparando un film sulla guerra di Libia nel 1938 con l'aiuto di un libro di Tobino.

L'intervista collettiva è finita. Decine di persone si fanno intorno a Monicelli, chiedono autografi, domandano, scherzano. Altri lo rimproverano per alcune cose dette o non dette. Lui è felice e sorridente.

Intervista di Wladimiro Settimelli – L'UNITA' – 24/05/2004

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