Le
dimissioni del presidente De la Rúa si producono su un
paesaggio di saccheggi e cadaveri, di fame e morte, una volta
ancora all'ombra di un "inevitabile" intervento
militare. Il fallimento del fronte che le forze progressiste
moderate hanno strutturato sui radicales, cercando di
strappare gli argentini dalla lunga agonia di ciò che un
tempo si chiamava peronismo, ha iniziato a evidenziarsi quando
queste truppe progressiste di complemento sono andate in pezzi e
i radicales si sono ritrovati soli davanti all'evidenza
della loro impotenza nell'affrontare la crisi. Quella attuale fa
parte della lunga crisi di un paese definito "potenzialmente
ricchissimo" così tante volte che ricordarlo sembra
già un luogo comune. A che si deve l'attuale situazione
di bancarotta che suscita desideri di esilio economico in buona
parte degli argentini? La cattiva amministrazione del governo De
la Rúa figura tra le cause, così come la durezza
con cui la crisi asiatica ha colpito il Mercosur (Mercato comune
sudamericano) o i problemi di indebitamento ereditati dai tempi
del falso ottimismo economico delle giunte militari. Ma stiamo
anche parlando di un paese dove le riviste di massima diffusione
utilizzano un ministro di Menem per parlare della corruzione in
questi termini: "Se smettessimo di rubare per due anni,
l'Argentina sarebbe il paese più ricco del mondo".
Varrebbe la pena di provarci, due anni non sono un'eternità,
una volta superata la sorpresa dell'autoimplicazione dello stesso
signor ministro nelle violazioni del settimo (credo)
comandamento. Cause più profonde vengono dallo
squilibrio strutturale dell'economia argentina e della perpetua,
crescente, ormai già drammatica fuga di capitali. La
mancanza di solidarietà del capitalismo nazionale viene da
lontano e si è complicata con l'entrata di lobby
compromesse col narcotraffico, che hanno lavorato come termiti
nelle strutture di potere di buona parte dell'America latina
"democratica". In altri tempi si sarebbero potuti
accusare i sindacati, il corporativismo ancora colorato di
peronismo, di comportarsi come strumenti di destabilizzazione
dell'economia. Lo sterminio durante il "processo",
ossia la dittatura di Videla e compagni, dei quadri sindacali più
politicizzati, più propensi a un intervento dei lavoratori
per modificare lo stato, ha accentuato l'indefinitezza di
sindacati che restano comunque potenti. Se De la Rúa ha
estratto Menem dagli arresti domiciliari per passeggiarci insieme
davanti agli obiettivi della tv, lo ha fatto per richiamare
disperatamente un provvisorio consenso sociale, avallato da ciò
che restava del menemismo nel sindacalismo argentino. E'
difficile misurare fino a che punto il menemismo sia un incubo
che per qualcuno ancora sembra un sogno, o un angosciato
referente per certe classi lavoratrici rimaste senza guida,
proiettate ancora una volta verso le frontiere della povertà.
Buenos Aires ha due manifestazioni fisse ogni settimana: quella
delle madri di Plaza de Mayo che ancora chiedono tutta la verità
su ciò che è accaduto ai loro figli, e quella dei
pensionati che protestano per le loro pensioni da fame. Nell'una
e nell'altra manifestazione si può ascoltare la dialettica
degli oppressi contro gli oppressori, come se assistessimo a due
rappresentazioni di Brecht davanti a un pubblico e uno scenario
impassibile, tanto attento a tragedie distanti come alle commedie
di presidenti restaurati col collagene, concentrati su una
cittadinanza a cui si proibisce di ritirare dalle banche i propri
risparmi, il necessario per vivere. Perché stavolta, e
una volta in più, il dramma messo in scena è quello
dell'impotenza della ragione della maggioranza contro la logica
della situazione controllata dall'oligarchia e, in ultima
analisi, da "quelli a cavallo", ossia da un esercito
che si è impadronito dello stato ogni volta che
quell'oligarchia ne aveva perduto le redini. Le misure
globalizzanti del Fondo monetario internazionale non hanno fatto
altro che accentuare il depauperamento di un paese potenzialmente
ricco e veramente povero, ma non di cultura, perché può
contare sulla classe media più colta dell'America latina e
con gli psicanalisti meglio preparati per studiare la sindrome di
autodistruzione, anche se inculcata come una consolazione.
Manuel
Vàsquez Montalbàn IL MANIFESTO
22/12/2001
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