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Pasionario Montalban, muore il papà di Pepe Carvalho

Forse, per i numerosi estimatori di Manuel Vázquez Montalbán sarà una sorpresa sapere che il grande scrittore catalano esordì, nel 1967, come un giovane e promettente poeta. Il suo collega José María Castellet preparò, agli inizi degli anni settanta, un’antologia dei più originali fra i poeti spagnoli contemporanei, e ne scelse nove, che battezzò i “novissimi”. L’apparizione di questa nuova generazione destò scalpore in una Spagna che si risvegliava intensamente nel crepuscolo della dittatura.

E sin dall’inizio si riconobbe a Vázquez Montalbán quelle caratteristiche di ricerca e innovazione che segneranno, poi, il suo percorso poliedrico. Nato nel 1939 a Barcellona, la sua vita è segnata dall’impegno civile. Presto comincia a lottare contro il dittatore Franco, si iscrive al Partito Socialista Unificato della Catalogna (comunista) e per questo motivo conosce le patrie galere nel 1962. Anche se dotato di un acuto senso della critica (e forse per questo) Vázquez Montalbán non abbandonerà mai i suoi principi di base, che diventeranno metodo nei suoi numerosi saggi d’analisi della società.

È per questo motivo che, quando alcuni accademici lo inquadrano dentro il fenomeno del “postmodernismo”, resta molto perplesso, perché considera detto movimento sostanzialmente reazionario. Quale poeta, la critica apprezza l’ironia, l’introduzione di elementi kitsch e in genere la rivalutazione degli aspetti della cultura di massa che ordinariamente venivano scartati dalla poesia “alta”. Ma più in generale, si potrebbe dire che Vázquez Montalbán esercita la poesia nel suo senso più generale, e cioè, come creazione a tutto campo, come lettura linguistica del mondo, facendo uso di ogni genere letterario, o si lo si vuol vedere da un altro punto di vista, con l’abolizione di ogni genere letterario per creare un vasto sistema d’interpretazione della realtà.

In questo senso, il suo approccio al giornalismo fa parte inscindibile dell’attività letteraria. Diversamente da quelli che sono artisti «nonostante» l’esercizio del giornalismo, in lui questa professione fa parte sostanziale della sua personalità artistica (come succede, peraltro, a García Márquez), ed è anche per tale motivo che alcune delle sue prime opere hanno come origine gli articoli scritti sulla rivista “Triunfo”.

Dal 1970 data il suo Manifiesto subnormal e nel 1971 pubblica la Crónica sentimental de España, uno sguardo sulla storia culturale del paese nel dopoguerra. Da quel momento in poi, c’è sempre un appuntamento con lo scrittore catalano nelle colonne di El País, dove si può stimare la precisione delle sue fonti, la ricchezza della prosa e la chiarezza delle idee, giudizi e posizioni.

Osservatore attentissimo dell’attualità, Vázquez Montalbán diventa testimone del suo tempo, nella migliore delle tradizioni intellettuali della Spagna. Compassionevole con i più deboli, strenuo difensore degli ultimi, sostenitore di cause perse, diventa altresì critico feroce e sarcastico dei potenti, ai quali non risparmia i migliori frutti della sua intelligenza e senso dell’umorismo. Uno stile giornalistico che risale a Mariano José de Larra e che continua con le prestigiose penne di Unamuno e di Ortega. In questo senso, la penna di Vázquez Montalbán non ha trascurato l’evolversi della storia latinoamericana, di cui ha dato conto con la solita passione e simpatia (condizioni quasi contagiose per chi scrive sull’America Latina).

Dal colpo di stato in Cile “La via cilena al colpo di stato” (1973), alla difesa di Cuba “Y Dios entró en la Habana” (1998), ai suoi celebri interscambi con il Sub-comandante Marcos, che gli hanno valso doppia celebrità fra i giovani “(Marcos, el señor de los espejos”, 1999). È molto probabile che se Vázquez Montalbán non avesse raggiunto la fama con la sua narrativa, l’avrebbe comunque guadagnata con il giornalismo e la saggistica. Perché il suo modo di affrontare la prosa è sempre lo stesso: una ricerca di intelligenza con il lettore, saltando la retorica e le convenzioni letterarie, ma non ignorandole. Il suo stile è trasparente perché squisitamente personale e ricco di sfumature, di brillantezza, di perspicacia e sarcasmo.

L’abbondante bibliografia saggistica di Vázquez Montalbán è sufficiente a farne un intellettuale. Nonostante ciò, contemporaneamente alla sua copiosa produzione di pensiero, esiste altrettanta opera d’immaginazione, fondamentalmente di narrativa e dentro questa, due filoni: la narrativa poliziesca e la narrativa storica. Essendo già poeta stimato negli ambienti editoriali, si lancia nella narrativa con “Recordando a Dardè y otros relatos” (1969) che non ha successo. Così come passa abbastanza inosservato il primo libro della fortunata serie Carvalho: “Yo maté a Kennedy”.

Come nasce Pepe Carvalho? All’inizio degli anni settanta, la narrativa spagnola era dominata da una necessaria ondata di sperimentalismo, frutto del desiderio di lasciare indietro il realismo sociale. Da un lato questa ricerca di metodi e strutture letterarie diede un risultato eccezionale in autori come Martín Santos, Sánchez Ferlosio e Juan Benet, ma d’altro canto creò un canone dal quale era difficile scostarsi. L’audacia di Vázquez Montalbán è quella di sfidare il canone e scrivere un romanzo poliziesco sulle orme del hard boiled nordamericano.

Gialli che erano più debitori degli eroi perdenti e in continua azione di Hammet o Chandler che della riflessione altoborghese di Agatha Christie. Viene alla luce, così, la figura del detective galiziano, di ritorno ormai da ogni esperienza, disincantato, bastonato, e nonostante tutto padrone di una etica tutta sua, che lo porta a risolvere alcuni torbidi casi, smascherando, di passaggio, le ipocrisie dell’establishment. Il secondo romanzo della serie, “Tatuaggio” (1974), fu scritto in quindici giorni, quasi come una scommessa, e con il deliberato intento di sfidare le convenzioni letterarie vigenti.

“Fare un giallo nel rigor mortis della cultura spagnola dell’epoca era una cosa orrenda. Per me era un romanzo sperimentale, visto che Carvalho non era il solito investigatore. Viveva con una puttana, bruciava i libri, era ex comunista ed ex agente della Cia”, spiegò posteriormente. Neanche questo romanzo raggiunse il successo, e fu solo con “I mari del Sud”, col quale vinse il prestigioso e potente Premio Planeta 1979, e che, nello stesso anno, vinse, in Francia, il Prix international de littérature policière, che Pepe Carvalho guadagna la fama. A partire da quel momento, comincia la “Serie Carvalho”, che arriva a 22 volumi.

L’autore, infatti, stava per pubblicare “Millenium”, l’ultima avventura del suo eroe, in cui il famoso investigatore, accompagnato dall’inseparabile Biscuter, fa il giro del mondo, cosa che gli permette di essere presente nei punti più caldi del pianeta, laddove si esercita la potenza imperiale con tutta la sua baldanza. Il libro è diviso in due volumi, data la sua mole. Era completamente finito e pronto per la stampa. Vázquez Montalbán doveva, al suo ritorno, dare gli ultimi ritocchi alla copertina.

È molto probabile che la grande popolarità dell’autore catalano risieda nella diffusione delle avventure del suo anti-eroe. Lo scrittore ha saputo cogliere, con intelligenza e raffinatezza, lo schema del giallo, e l’ha utilizzato sapientemente per raccontarci non solo delle storie avvincenti che si leggono col fiato sospeso e col desiderio di conoscere la fine, ma anche per disegnare un impressionate affresco della società contemporanea, non solo spagnola. La sua grandezza sta nel cogliere la chiave d’interpretazione dei momenti storici contemporanei non solo con precisione, ma spesso anche con lungimiranza. “I mari del Sud” non è solo la storia dell’infelice Carlos Stuart Pedrell e la sua illusione di emulare Gauguin.

È pure (e soprattutto) un percorso per la Barcellona del Barrio Chino, con le sue mitiche insidie di quartiere malfamato, e quella altolocata di Sarriá e Pedralbes, in un microcosmo che ci dà conto della corruzione prematura di una democrazia che si prometteva di rifondare il paese. La delusione di Carvalho non è altro che il contraltare del desencanto che avrebbe percorso la società spagnola dopo l’euforia dei primi anni della transizione, quelli della marcha e della movida.

Certo, Carvalho è un perdente, ma di quelli che scelgono di perdere, in netta antitesi col modello dello yuppie che imperversa in quegli anni. Personaggio lucido e sarcastico, è portato dall’autore all’estremo (e in questo senso, diventa anche personaggio romantico), «accogliendo» una prostituta come compagna di viaggio e bruciando sornionamente i libri, in aperta sfida al lettore sicuramente colto. Si ribella contro le convenzioni, buttandosi sulla gastronomia, con gusto indubbiamente autobiografico. Forse sembrerà retorico affermare che Carvalho è un po’ tutti noi, forse lo è meno se diciamo che ciascuno di noi vorrebbe portare avanti una ribellione simile a quella di Carvalho.

In modo più attenuato, non è azzardato immaginare che ogni scrittore vorrebbe essere un po’ Carvalho, un po’ Vázquez Montalbán. C’è in loro quel tanto di lucidità che tutti vorremmo avere, quell’atteggiamento simultaneamente di sfida e di rassegnazione che connota il riconoscere di vivere in un mondo ostile alle nostre idee e al nostro desiderio di giustizia e uguaglianza, e nonostante tutto, c’è una strenua lotta (in questo caso, in campo intellettuale) di chi non si dà per vinto, perché sostenuto da una biografia e, scusate se è poco o demodé, da un forte ideale. Per quella lucidità, per quel tenace senso dell’umorismo, per quella invincibile fede nel futuro dell’uomo (sì, è vero: in un mondo altro e migliore) ci mancherà tanto il sostegno di Manuel Vázquez Montalbán.

Lo vedo accanto alla finestra, sorprendentemente senza baffi, austero davanti al freddo invernale di Madrid. Ha smesso anche di fumare, dopo la malattia al cuore. Me l’aspettavo diverso. La lettura dei suoi libri mi aveva dato l’impressione di un uomo esuberante, ridanciano, torrenziale. Invece, si rivela, alla conversazione, riflessivo e abbastanza parco. Quando Rigoberta Menchú si avvicina e lo saluta col suo entusiasmo quasi infantile, lui risponde con affetto, ma molto circospetto. Più che parlare, chiede, s’informa, fa domande precise e laconiche. Pochi mesi prima, una campagna contro Rigoberta aveva trovato in lui una risposta severa, acuta e tranciante. Era un personaggio solido, rassicurante e allo stesso tempo emanava un aura amichevole e tenera. Senz’altro, uno di quegli amici a cui chiedere aiuto nei momenti difficili. Come tutti i grandi, si dimostrava modesto e semplice. E siccome ci saranno ancora momenti difficili, non temo ripetermi: ci mancherà sul serio.

Dante Liano – L'UNITA – 18/10/2003

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