E'
la studentessa di Calcutta che entra nel movimento naxalita
perché vuole giustizia sociale - l'abbiamo vista nel film
Madre del 1084, di Gowind Nihalani, presentato a Roma
durante gli Incontri con il cinema asiatico, la
rassegna curata da Italo Spinelli. Ma è anche la giovane
donna vittima di un terribile stupro collettivo che sta ancora
lottando per trascinare i suoi aguzzini in tribunale (in
Bawandar, Tempesta di sabbia). È la
moglie di un poliziotto che si sottrae al ruolo di sposa devota
anche se continua ad amare suo marito. Parti diverse, con
qualcosa in comune: Nandita Das, giovane e bellissima attrice
indiana, propone sempre personaggi complessi, non stereotipati, e
riesce benissimo a renderne profondità e sfumature. Sarà
perché lei stessa è persona a diverse dimensioni:
attrice ormai famosa, attivista sociale, persona di impegno
politico, regista - la rassegna romana ha proposto quattro suoi
lavori, storie di bambini in forma di brevi spot (Roll Call,
realizzato per l'Unicef; Car Park; Yatra e Jalebi).
Di fronte alla doppia etichetta di attrice e attivista sociale
Nandita Das dichiara però un certo fastidio: Per me
le due cose non sono separabili, sono entrambe parte della mia
vita. Nata a Bombay e cresciuta a New Delhi, dove abita,
Nandita Das è laureata in geografia e ha preso un master
in lavoro sociale. Poi ho lavorato con un gruppo non
governativo per la promozione sociale delle donne in uno slum di
Delhi, Ankur. Certo, ero molto idealista e forse non avevo
l'esperienza per reggere le contraddizioni. Sono cresciuta in una
famiglia che non discriminava tra me e mio fratello, rispettava
le mie scelte, ero libera: ma in altri ambienti questo non era
affatto scontato. Quando una donna del gruppo, una persona forte,
una leader, è stata picchiata brutalmente dal marito, non
abbiamo potuto fare nulla. È stato un momento di crisi. Ho
deciso di lavorare con i bambini, forse perché ponevano
meno contraddizioni.
E al cinema come è
arrivata?
Non è stata una scelta premeditata.
Durante l'università avevo cominciato a fare teatro di
strada, e quella è stata la mia prima introduzione alla
politica. Mio padre è un pittore (assai noto, Jatin Das,
ndr), mia madre una scrittrice (Varsha Das): ero cresciuta
con l'arte, teatro, musica, danza, esposizioni. Ma il teatro di
strada serve a comunicare idee: i diritti dei lavoratori e delle
donne, i sindacati, il diritto all'istruzione. Era un gruppo
molto connotato, di sinistra. Il fondatore, Safdar Hashmi, è
stato poi ucciso: era una persona straordinaria, e ho capito come
la cultura è parte della battaglia politica. Dunque,
quando mi hanno proposto di partecipare a un film sull'educazione
popolare l'ho preso come un altro modo che continuare lo stesso
lavoro. Poi c'è stato Fire, diretto da Deepa Mehta:
quello è stato il mio primo vero film, è andato nei
festival internazionali, ha suscitato polemiche (uscito nel 1996,
Fire mostra un amore lesbico, ndr). Poi Madre
del 1084, poi molti altri. Ma chi mi presenta come attrice
«impegnata» non sa che è il contrario: è
venuto prima l'attivismo sociale, poi il cinema.
Nel
suo curriculum ci sono ormai decine di film...
Recito
se la parte mi interessa. L'anno scorso non ho fatto nulla perché
non avevo trovato progetti interessanti, altri anni ho fatto
anche quattro film di seguito. A volte recito in piccoli film
regionali, cioè in lingue diverse dal hindi. Certo, mi
dicono che è cinema marginale: solo il cinema in hindi è
considerato centrale. Eppure anche nel panorama regionale ci sono
talenti e storie importanti - oltretutto la pressione commerciale
è minore, non hai la competizione dei grandi budget. Il
problema è che i piccoli progetti nel cinema hindi fanno
sempre più fatica a sopravvivere per mancanza di
finanziamenti e poca distribuzione. Così molti registi di
quello che chiamiamo il cinema parallelo (il cinema d'autore,
distinto dall'industria massificata di Hollywood, ndr)
cominciano a confezionare i loro film in modo più
commerciale con attori famosi, canzoni orecchiabili, una patina
hollywoodiana.
Qui ne abbiamo avuto un esempio: abbiamo
visto Final Solution, un documentario sugli scontri
interreligiosi avvenuti in Gujarat nel 2002, di Rakesh Sharma,
che mostra come i sentimenti comunitari sono
costruiti e sfruttati a fini politici. E abbiamo visto un film di
pura fiction, Dev di Gowind Nihalani, che mette in scena
la stessa politica dell'odio con una storia d'amore e attori
famosi.
I puristi a volte si scandalizzano delle
concessioni al commerciale. E però il documentario circola
in ambienti impegnati, mentre abbiamo bisogno di seminare dubbi e
discussione in un pubblico più ampio. La strategia del
fanatismo è ben pianificata. Nel suo documentario Rakesh
Sharma mostra quei discorsi fatti per infiammare le folle,
convincerle che il vicino musulmano è il nemico: sanno su
quali tasti battere. Invece i gruppi della società civile
che cercano di contrastare il progetto fondamentalista sono
frammentati, a volte discordi, lavorano in piccole zone, hanno
mezzi limitati. Trovo molto importante lavorare con i giovani:
sono sotto pressione, sono incitati ad avere successo e
guadagnare, non hanno punti di riferimento forti, e però
quando gli parli ti rendi conto che vogliono essere parte di un
progetto, hanno ideali.
Negli ultimi anni abbiamo visto
grandi controversie attorno a eventi culturali. Come con il film
Water, progetto di Deepa Metha in cui avrebbe
recitato anche lei...
Quello è stato un vero e
proprio caso di polizia culturale. Il film aveva
tutte le autorizzazioni necessarie, era una storia di vedove
ambientato a Benares negli anni `30. Ma c'è stata una
campagna pretestuosa per dire che offendeva la cultura hindu:
ormai dilaga una sorta di revivalismo, una spinta regressiva in
nome della religione. Credo che i signori del Vhp (Congresso
mondiale hindu, forza politico-religiosa dalle coloriture
fondamentaliste, ndr) non abbiano neppure letto il
copione: eravamo le stesse donne di Fire e per loro
bastava. Ci hanno impedito di girare. È stato parte di un
clima. È quella spinta regressiva: tutti così
veloci nell'etichettare ogni cosa definita altro, che
sia altra religione, casta, cultura, gruppo. Ma forse per questo
molti miei film sono rimasti con me ben più a lungo del
tempo di girarli: hanno suscitato discussione, maturazione. Come
la storia di Babri Devi, violentata in Rajasthan, che è
una storia reale: lo sfruttamento delle donne è così
legato all'offesa sessuale - per sottomettere una donna cercano
l'umiliazione sessuale, la forma di umiliazione più
forte.
Cosa l'ha spinta a passare alla regia?
Forse
il desiderio di dire qualcosa di mio a modo mio. È stato
un paio d'anni fa, quando ho conosciuto l'uomo che ora è
mio marito, Saumya Sen. Lui lavora nella pubblicità, cosa
che mi era sempre sembrata estranea. Un'organizzazione
ambientalista, il centre for Science and Environment, gli aveva
chiesto di partecipare a una campagna di comunicazione sociale e
lui mi ha proposto di farlo. Ho accettato: in dieci giorni
abbiammo dovuto fare uno spot sulla raccolta di acqua piovana!
Così è nata la nostra società di
comunicazione sociale, Leapfrog. Abbiamo portato in Pakistan un
gruppo di bambini di strada per una partita di cricket, che dalle
nostre parti è uno sport molto popolare, e ora stiamo
organizzando la visita di ritorno. Progetti? Sì, ho un
film in progetto ma è presto per parlarne.
Intervista
di Marina Forti IL MANIFESTO 26/11/2004
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