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Tutti i sogni di Naomi Klein |
Naomi
Klein e Awi Lewis adorano la no-global beach. E non siamo alla
dichiarazione dovuta, persino ovvia della scrittrice che con
No logo è diventata uno dei punti di riferimento
teorici per i movimenti contro la globalizzazione. La spiaggia - dove
ieri sera hanno proiettato il loro film, The Take - è
un esempio concreto (e riuscito) di lotta politica. Spiegano: il
nuovo modello politico punta a un equilibrio tra i diritti dei
lavoratori, dei cittadini e dell'ambiente. I ragazzi del movimento
hanno strappato un pezzo di spiaggia al degrado rendendolo luogo
accogliente in risposta a una esigenza collettiva. Bionda, aria
dolce e insieme determinata, look all black, Naomi Klein è
arrivata alla Mostra in veste di scrittrice e produttrice di The
Take diretto dal marito Awi Lewis. The Take, in questo
caso il prendere, o il riprendere in termini di appropriazione.
Leggiamo nelle note degli autori: nei suburbi di Buenos Aires
trenta disoccupati occupano una fabbrica, riaccendono le macchine
addormentate e rifiutano di andarsene. Questo semplice gesto ha il
potere di portarli nel dibattito sulla globalizzazione. The
Take racconta infatti la crisi economica in Argentina, la
reazione popolare al crollo, l'affermarsi da lì di un nuova
idea (e pratica) di democrazia. Lo fa attraverso due figure chiave,
Freddy, presidente della cooperativa dei lavoratori e Lalo,
responsabile politico del movimento e le loro esperienze, come quelle
che si intrecciano in tutto il film, diventano il punto di partenza
per una nuova riflessione su conseguenze e resistenza al
neoliberismo. La sfida dell'Argentina diventa un laboratorio concreto
e allargato, che coinvolge un intero paese, in cui si sperimentano
quotidianamente gli obiettivi del movimento no-global, la resistenza
al vecchio capitalismo, le politiche economiche alternative al
modello neoliberista, una nuova pratica di lotta nelle fabbriche che
va oltre l'autogestione, l'opposizione ai ricatti esterni. E
soprattutto una forma politica che prova a superare i modelli
istituzionali. Naomi Klein viene da New York, dove ha partecipato da
voce critica alla convention americana. Partire dalle vicine elezioni
è inevitabile.
I sondaggi alla fine della convention
repubblicana davano Bush di nuovo in testa. Eppure le informazioni su
quanto accade in Iraq hanno bucato la cortina di censura, ci sono
voci critiche, e la situazione interna è difficile.
Si
potrebbe rispondere con una domanda: come mai gli italiani hanno
votato Berlusconi? Il punto è che Bush lancia lo stesso
messaggio di Kerry. La convention democratica è stata una
celebrazione della guerra e dei valori militari del paese. Lo stesso
Kerry, che all'epoca del Vietnam si era schierato contro la guerra
definendola un crimine, oggi fa di tutto per dimostrare quanto sia
forte e valoroso. Bush è soltanto un attore migliore. La
verità è che negli Usa si sta vivendo un momento
terribile per la democrazia, basta pensare che alla manifestazione di
New York contro i repubblicani ci sono stati 1800 arresti. Gli
elettori però non hanno una reale scelta. Personaggi come Bush
o Berlusconi andrebbero allontanati per sempre dal processo politico,
ma il punto è che Kerry proseguirà l'azione di Bush. I
nostri sogni non entrano nella scheda elettorale.
Lo slogan
dall'11 settembre è lotta al terrorismo. Ma la paura si è
trasformata in un pericoloso strumento di controllo, che permette di
far passare leggi repressive in nome della sicurezza.
La
paura è un'arma molto potente e molto utile al controllo
sociale. Abbiamo vissuto otto mesi in Argentina per girare il film.
Loro conoscono bene la paura, sanno come è stata usata per
costringere la gente a non reagire, a subire la dittatura. Quando
siamo arrivati, erano iniziate le manifestazioni di protesta, tutti
dicevano che la dittatura era finita in quel momento. Non capivamo,
dicevamo «ma come, non era finita nel `93?». I generali
avevano creato una rete tale di controllo in cui nessuno osava
muoversi. La gente si era abituata, o meglio aveva voluto abituarsi a
ignorare le urla, le sparizioni. La transizione ha portato dal
terrore della dittatura al capitalismo, al superconsumo e si
continuava a stare in casa, a lavorare, a accettare passivamente le
cose. Con la crisi gli argentini si sono ripresi le strade, sono
usciti dalla rete, hanno inventato le loro risposte. La loro
esperienza non è solo una lezione economica ma anche un
esempio di coraggio che può esserci utile a reagire, a non
farci condizionare dalla paura, ingigantita da media e classe
politica per far passare i loro sistemi di controllo.
Torniamo
agli Stati uniti. Cosa pensa che accadrà alle elezioni?
Ci
sono davvero delle grandi differenze? L'Iraq è stata per i
neoconservatori un'esperienza fallimentare. Dal grande sogno
capitalista si sono svegliati in un incubo. Ora si tratta di fare i
conti con questo e credo che le persone abbiamo bisogno di maggiore
chiarezza e di maggiori distinzione sulla linea della politica
estera. Mi sembra che i democratici sottovalutino l'esigenza di una
risposta netta sulla questione della guerra, che non è solo un
fare i conti con le multinazionali. Ero in Iraq quando si sono
ritirate le truppe spagnole. Non potevo crederci. Zapatero aveva
promesso una cosa prima di esser eletto, e l'ha mantenuta. Oggi
questo gesto ha un sapore rivoluzionario.
The Take
racconta l'Argentina. Cosa vi ha portato a questa scelta?
Avevamo
già deciso di lavorare insieme e di fare un film che
celebrasse la resistenza e la critica al sistema. Ci interessavano
quei posti dove la gente stava rispondendo alla crisi della
democrazia e dell'economia. Poi è arrivato l'11 settembre, il
cambiamento di prospettiva mondiale è stato radicale e a quel
punto dovevamo confrontarci con una nuova realtà. Penso che da
allora sia veramente finito qualcosa, affrontare un tema come la
resistenza al sistema diventava difficile mentre tutto intorno era
sicurezza, terrorismo, guerra. Ecco che in dicembre l'Argentina
esplode e la sua resistenza è ancora viva. La protesta contro
il neoliberismo riguarda tutti i paesi, c'erano stati Seattle,
Genova, ma lì è un'intera nazione a rifiutare il
ricatto economico. Quando siamo arrivati abbiamo trovato una
situazione incredibile. Il movimento sociale era molto diversificato,
c'erano assemblee, interventi, manifestazioni in ogni angolo delle
città che rivendicano la pratica della democrazia. Abbiamo
lavorato su sedici fabbriche, tra la Patagonia e la Terra del fuoco.
Erano state chiuse, le hanno riaperte gli operai e oggi stanno
lavorando. Tanto che questo esperimento economico è studiato
dalle sinistre come dalle destre. E è esportabile. Per questo
mostriamo ovunque il nostro film, nella lotta globale la
comunicazione è molto importante. In Quebec avevano chiuso una
fabbrica di alluminio, i 150 operai licenziati l'hanno occupata e
riattivata. In un'economia basata sul precariato l'esempio argentino
è prezioso. Il capitalismo è morto ma riesce a
costringere una comunità alla paralisi. I governi offrono
infatti alcune garanzie ai lavoratori ma il rispetto della proprietà
privata è sempre prioritario. Se la fabbrica fallisce anche
gli operai hanno diritto a un risarcimento, ma la loro è la
percentuale più bassa di tutti gli altri utili. La sentenza
argentina è «occupare, resistere, produrre». Loro
occupano e poi fanno delle battaglie legali per ottenere le
autorizzazioni. È anche uno scarto totale rispetto ai
movimenti sindacali che per un secolo hanno usato come arma di
resistenza lo sciopero. Qui invece è il contrario, il lavoro
diventa creatività.
Anche se come altrove la crisi
ha radici più antiche.
Menem ha solo portato a
termine quanto ha iniziato la dittatura con la complicità
degli Stati uniti come dimostrano i documenti di Kissinger resi
pubblici. Era un modello economico già preordinato. Però
c'è stata la forza di rifiutarlo radicalmente, hanno rifiutato
Bush o Berlusconi, detto a Menem no màs, dimostrando
che non esiste solo l'ipotesi liberista. Oggi cominciano a reprimere
il movimento, ma i lavoratori continuano a cercare dei modelli
alternativi, a sperimentare un'ipotesi di fabbrica indipendente. La
democrazia è nella vita quotidiana, e anche per questo nel
film abbiamo puntato su storie personali, che sapessero comunicare in
modo più diretto. Genova, Cancun si possono raccontare
realmente o si può scegliere di dare spazio alle persone, ai
loro processi di trasformazione. È l'esempio di Michael Moore
o di un film come Super size me, dove ci sono spazi aperti per
il pubblico e non solo un'idea politica.
In Argentina si
parla di movimento e così per i sem terra o gli zapatisti.
Come vede il rapporto tra queste forze e i rappresentanti della
politica istituzionale?
La grandezza della sfida argentina
sta nello sperimentare la democrazia nella vita quotidiana. Portare
il movimento da un livello locale a uno nazionale è il primo
passo. Però non si possono rifiutare le elezioni, c'è
bisogno di un sistema politico. Ma quale può essere
l'alternativa alla politica nazionale? È un grosso problema.
Cioè come mantenere le battaglie che nascono dai movimenti
sociali, da un impegno politico che non può essere il partito?
L'esempio argentino è uno. In Brasile ci sono i sem terra: c'è
bisogno della riforma agraria nazionale ma intanto a livello locale
occupano le terre e le coltivano. Trasformare un movimento in partito
è un rischio come anche esaltare le sole individualità.
Intervista di Cristina Piccino IL MANIFESTO 05/09/2004