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Giovanni Rebora

Impariamo a non sprecare

Manca l'acqua! A tavola non mi preoccuperei, diverso sarebbe se mancasse il vino. Io non dispongo di taumaturghi e sarei in ambasce, le Nozze di Cana sono ormai lontane. Invece, forse per sostenere il governo, non piove mai: l'imprecazione consueta non è utilizzabile (piove, governo così così). In cucina la faccenda si fa più complicata, siamo acquadipendenti e lo scopriamo solo quando ne siamo privi.

Come si fa un minestrone senza l'acqua? Come si fa un bollito misto? Come si cuociono le trenette? E gli gnocchi? E le patate per gli gnocchi?

Sono domande drammatiche per me che mangio in casa mia meglio che posso. Senz'acqua come si lava l'insalata, come si ammollano le cipolle, e i ceci, e la farina di ceci per la farinata? E come si possono fare le tante altre cose che allietano il crepuscolo di una lunga vita, ma che sono anche l'illusione di opulenza di chi è ancora giovane: come si può fare il brodo e come si possono cuocere i ravioli? E come si impasta, solo con le uova direbbe un langarolo, mai tagliolini versi con troppe uova sanno di “refrescumme”, e anche quelli destinati ad essere conditi con tocchi (ragù) di pesce o di molluschi.

Insomma, la carenza di acqua mi si presenta come una drammatica evenienza e mi fa tornare alla mente tanti fatti e tante scemenze che sarebbe meglio avessi dimenticato.

Intanto mi torna alla mente (mi viene in cuore, come direbbero i miei) che ogni casa del centro storico e non, aveva la sua brava cisterna. Ci sono cisterne in via Garibaldi ed in via Balbi (case da ricchissimi), ma ci sono anche nelle case medievali, costruite dai ricchi ma poi affittate ai meno ricchi ma poi affittate ai meno ricchi, come le case della via San Bernardo, di piazza San donato, delle Erbe e via dicendo fino alla ripa. Alcune cisterne sono state trasformate in magazzini, altre in cantine, ma in alcune si vedono ancora i fori per il passaggio dei secchi, pieni d'acqua, che venivano issati fino alla cucina, ov'era lo stazzo (il cesso costituito da una lastra forata: nel Medio Evo questi cessi si chiamavano sedilia). Quell'acqua, raccolta durante la stagione piovosa, veniva utilizzata per lavare e per essere versata nel cesso. L'acqua da bere si andava a prendere dai “cannoni” degli acquedotti, acqua che se ne veniva a Genova dai monti del Velino, fino al Milleduecento.

Si potrà osservare che allora c'era poca gente. Bravi, pur con poca gente quei signori provvedevano ad amministrare l'acqua. Noi forse non abbiamo mai fatto qualcosa di simile né siamo mai riusciti a prevedere gli aumenti della popolazione.

Ricordo un articolo di Cardini, su queste colonne, in cui il professore medievista rammentava i “pantanos” del tempo di Francisco Franco; anch'io ebbi a chiedere, tantissimi anni fa, ad un professore di idraulica, come mai non si facessero laghi artificiali destinati all'agricoltura e come mai tanta acqua venisse sprecata, mandata al mare magari dopo aver devastato campagne e città con le alluvioni. Mi venne risposto che le dighe si fanno soprattutto per l'elettricità, e quelle (poche) che si fanno per “abbeverare” le città dovrebbero bastare. Io ero giovane e naturalmente (se possibile) più ignorante di adesso, non seppi ribattere e fui considerato impertinente. So che i pantani ospitano zanzare, ma anche rane ed aironi (di cui si lamentava l'assenza) e che le risaie fanno zanzare, ma anche riso. So che abbiamo mandato milioni di metri cubi d'acqua all'industria e so che solo da poco tempo, dacché si parla di smantellare l'industria stessa, si parla di riciclaggio dell'acqua...

Il Polcevera ospitava vasche dell'acquedotto Nicolay, ma fu talmente inquinato che si dovettero chiudere. Insomma, insieme con i problemi della giustizia e quelli costituzionali, vediamo di pensare anche a questi problemi, che in futuro, se risolti, ci permetteranno di riprendere a sprecare l'acqua e ad offrirla ai turisti, che sono sì sacri, ma ne sciupano chilometrici cubi!

Quanto a noi, rallegriamoci che la Liguria è comunque ricca di acque, ma pensiamo che la nostra parsimonia, che tutti ci rimproverano, potrebbe aiutarci ad evitare gli sprechi.

Giovanni Rebora – IL SECOLO XIX – 19/09/2003


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