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Giovanni Rebora

Vino bianco o vino rosso? La moda e il gusto

Vino bianco o rosso? Una decina di anni fa, questa era la domanda che ti rivolgeva la giovane cameriera della trattoria non appena ti fossi seduto, ottenuta la risposta, riappariva dopo molto tempo. Pareva che si trattasse di una sua curiosità piuttosto che di una ordinazione. Si trattava comunque di un progresso linguistico, o di un ritorno all'antico, visto che prima dell'arrivo della ferrovia (seconda metà dell'Ottocento) in Liguria e a Genova il vino si produceva in prevalenza rosso e così si chiamava. Con la ferrovia e con l'industria arrivarono i vini del Monferrato e anche i monferrini che venivano a lavorare a Genova; questi impararono subito a parlare genovese, ma non vollero cambiare vino, così nelle tante trattorie il vino da rosso si chiamò nero.


Era dolcetto o barbera, ma doveva essere ben nero per non apparire annacquato, se l'annata produceva vino chiaro, si ricorreva al "tinturin" (una delle due varietà di uva che sono colorate anche nella polpa) che i bambini usavano per disegnarsi i baffi. Rendeva il vino nero e allappante, ma alimentava il mito del "vino del contadino". Le trattorie offrivano una cucina "casalinga", che somigliava alla cucina di casa, ma che spesso era molto migliore. L'abitudine a frequentare i punti di ristoro era dettata anche dalla mancanza di mezzi di trasporto veloci e l'interruzione per il pranzo era breve. A Sampierdarena il "Brillé" era un sellaio monferrino che divenne famoso per il cibo che serviva nella sua trattoria, anche il "Toro" divenne famoso e Munsù e tanti altri. Si serviva vino bianco con la frittura di pesce e vino rosso con le altre pietanze. I piemontesi, comunque, volevano il loro vino nero.


Con il benessere, anche un poco fittizio, degli anni Sessanta del secolo scorso, vennero anche le prime voglie di adeguarsi a regole che parevano di bon ton; trattorie e ristoranti accoglievano turisti ai quali servivano pesce con sempre maggiore frequenza e al pesce facevano seguire pessimo vino bianco ghiacciato. D'altronde i turisti lombardi o torinesi si spacciavano per sapienti gourmets, non avari di critiche e disposti ad ingoiare pesce anche col mare in condizioni proibitive. Fatto sta che su tutto ciò che sarebbe dovuto venire dal mare, compresi crostacei e molluschi, divenne regola di buone maniere e di acquisito sapere, l'uso del vino bianco gelato.


Il rosso era invece destinato ai piatti di carne e al formaggio. Le regole, si sa, dovrebbero essere fatte sì per semplificare le cose, ma dovrebbero rispondere anche al buon senso, e controllate con i propri gusti. Quando invece sembrano sentenze di cassazione, può essere che una persona, dotata di un minimo di senso critico, voglia provare, verificare se la regola è buona davvero. Sullo stoccafisso accomodato è sempre andato benissimo un vino rosso piemontese, magari giovane, ma anche il nostralino che ricorda l'ambito "chiaretto" così in voga prima dell'avvento della ferrovia. Lo stesso si può sostenere per i mitili cotti col pomodoro, i moscardini affogati, ecc. Il caciucco livornese ha sempre supportato benissimo il vino rosso toscano.


La mia pigrizia mi ha portato, tanti anni fa, a scoprire l'importanza del vino rosso giovane sulle seppie con i piselli e patate: non volli scendere in cantina per il vino e mi aprii una bottiglia di barbera di due anni, fu una illuminazione improvvisa e mi convertii. La via di Damasco esiste anche per le piccole cose. Confessai la trasgressione ad Armando Cordero (un grandissimo enologo) e egli mi assolse, raccomandandomi il vino rosso anche su altri prodotti "di mare".


Il vino bianco, però, è anch'esso buono e, se è fatto bene, non fa male, sarebbe anche buono e profumato se non venisse servito a temperature polari. Rosso o bianco il vino è fatto con l'uva e le differenze sono rilevanti solo nel sapore, oppure rilevabili con accurate analisi di laboratorio. Ma le regole vanno rispettate. Allora, ad aiutare i trasgressori, eccoti gli scienziati. Questi hanno stabilito che il vino rosso, assunto in quantità irrisorie, può far bene e difendere dalle peggiori malattie. Ora nei ristoranti e anche in tante trattorie si servono etichette costose, è raro il "vino della casa" ed è combattuto da tutte le polizie dello Stato.


Salvo casi eccezionali, che ormai fanno tenerezza, nessuno spara più"vino bianco o rosso", ma anche i meno spocchiosi cercano di consigliare il vino adatto al loro menù o ai piatti scelti dal cliente. Negli ultimi tempi si nota una rinnovata preferenza per il vino rosso. È un dato di fatto, però non vorrei che questa preferenza venisse, anziché dal gusto del consumatore, dalle indicazioni salutistiche adesso di moda. Le ostriche chiedono ancora vino bianco secco, magari con le bollicine; un branzino bollito o un'orata bollita non sopportano il tannino del barbera e nemmeno lo sopporterebbe una frittura di pesce, ammesso che si trovino pesciolini da frittura.


Insomma, se la regola è servita per cominciare a distinguere, per muovere i primi passi del gusto, non mi piacerebbe che venisse stravolta solo per obbedire ad un'altra regola: i nostri gusti e le nostre abitudini dovrebbero vincere su tutte le regole precarie, altrimenti possiamo fare un fioretto ogni tanto e forse il risultato sarebbe migliore. Qualche tempo fa ho fatto un articoletto "contro" le acque aromatizzate, forse, come a Turiddu, mi ha suggerito il vino, vuol dire che andrò fuori all'aperto.


Giovanni Rebora – IL SECOLO XIX – 20/01/2004



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