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Vino bianco o vino rosso? La moda e il gusto |
Vino bianco o rosso? Una decina di anni fa, questa era la domanda che ti rivolgeva la giovane cameriera della trattoria non appena ti fossi seduto, ottenuta la risposta, riappariva dopo molto tempo. Pareva che si trattasse di una sua curiosità piuttosto che di una ordinazione. Si trattava comunque di un progresso linguistico, o di un ritorno all'antico, visto che prima dell'arrivo della ferrovia (seconda metà dell'Ottocento) in Liguria e a Genova il vino si produceva in prevalenza rosso e così si chiamava. Con la ferrovia e con l'industria arrivarono i vini del Monferrato e anche i monferrini che venivano a lavorare a Genova; questi impararono subito a parlare genovese, ma non vollero cambiare vino, così nelle tante trattorie il vino da rosso si chiamò nero.
Era dolcetto o barbera, ma doveva essere ben nero per non apparire annacquato, se l'annata produceva vino chiaro, si ricorreva al "tinturin" (una delle due varietà di uva che sono colorate anche nella polpa) che i bambini usavano per disegnarsi i baffi. Rendeva il vino nero e allappante, ma alimentava il mito del "vino del contadino". Le trattorie offrivano una cucina "casalinga", che somigliava alla cucina di casa, ma che spesso era molto migliore. L'abitudine a frequentare i punti di ristoro era dettata anche dalla mancanza di mezzi di trasporto veloci e l'interruzione per il pranzo era breve. A Sampierdarena il "Brillé" era un sellaio monferrino che divenne famoso per il cibo che serviva nella sua trattoria, anche il "Toro" divenne famoso e Munsù e tanti altri. Si serviva vino bianco con la frittura di pesce e vino rosso con le altre pietanze. I piemontesi, comunque, volevano il loro vino nero.
Con
il benessere, anche un poco fittizio, degli anni Sessanta del secolo
scorso, vennero anche le prime voglie di adeguarsi a regole che
parevano di bon ton; trattorie e ristoranti accoglievano turisti ai
quali servivano pesce con sempre maggiore frequenza e al pesce
facevano seguire pessimo vino bianco ghiacciato. D'altronde i turisti
lombardi o torinesi si spacciavano per sapienti gourmets, non avari
di critiche e disposti ad ingoiare pesce anche col mare in condizioni
proibitive. Fatto sta che su tutto ciò che sarebbe dovuto
venire dal mare, compresi crostacei e molluschi, divenne regola di
buone maniere e di acquisito sapere, l'uso del vino bianco gelato.
Il
rosso era invece destinato ai piatti di carne e al formaggio. Le
regole, si sa, dovrebbero essere fatte sì per semplificare le
cose, ma dovrebbero rispondere anche al buon senso, e controllate con
i propri gusti. Quando invece sembrano sentenze di cassazione, può
essere che una persona, dotata di un minimo di senso critico, voglia
provare, verificare se la regola è buona davvero. Sullo
stoccafisso accomodato è sempre andato benissimo un vino rosso
piemontese, magari giovane, ma anche il nostralino che ricorda
l'ambito "chiaretto" così in voga prima dell'avvento
della ferrovia. Lo stesso si può sostenere per i mitili cotti
col pomodoro, i moscardini affogati, ecc. Il caciucco livornese ha
sempre supportato benissimo il vino rosso toscano.
La
mia pigrizia mi ha portato, tanti anni fa, a scoprire l'importanza
del vino rosso giovane sulle seppie con i piselli e patate: non volli
scendere in cantina per il vino e mi aprii una bottiglia di barbera
di due anni, fu una illuminazione improvvisa e mi convertii. La via
di Damasco esiste anche per le piccole cose. Confessai la
trasgressione ad Armando Cordero (un grandissimo enologo) e egli mi
assolse, raccomandandomi il vino rosso anche su altri prodotti "di
mare".
Il
vino bianco, però, è anch'esso buono e, se è
fatto bene, non fa male, sarebbe anche buono e profumato se non
venisse servito a temperature polari. Rosso o bianco il vino è
fatto con l'uva e le differenze sono rilevanti solo nel sapore,
oppure rilevabili con accurate analisi di laboratorio. Ma le regole
vanno rispettate. Allora, ad aiutare i trasgressori, eccoti gli
scienziati. Questi hanno stabilito che il vino rosso, assunto in
quantità irrisorie, può far bene e difendere dalle
peggiori malattie. Ora nei ristoranti e anche in tante trattorie si
servono etichette costose, è raro il "vino della casa"
ed è combattuto da tutte le polizie dello Stato.
Salvo
casi eccezionali, che ormai fanno tenerezza, nessuno spara più"vino
bianco o rosso", ma anche i meno spocchiosi cercano di
consigliare il vino adatto al loro menù o ai piatti scelti dal
cliente. Negli ultimi tempi si nota una rinnovata preferenza per il
vino rosso. È un dato di fatto, però non vorrei che
questa preferenza venisse, anziché dal gusto del consumatore,
dalle indicazioni salutistiche adesso di moda. Le ostriche chiedono
ancora vino bianco secco, magari con le bollicine; un branzino
bollito o un'orata bollita non sopportano il tannino del barbera e
nemmeno lo sopporterebbe una frittura di pesce, ammesso che si
trovino pesciolini da frittura.
Insomma,
se la regola è servita per cominciare a distinguere, per
muovere i primi passi del gusto, non mi piacerebbe che venisse
stravolta solo per obbedire ad un'altra regola: i nostri gusti e le
nostre abitudini dovrebbero vincere su tutte le regole precarie,
altrimenti possiamo fare un fioretto ogni tanto e forse il risultato
sarebbe migliore. Qualche tempo fa ho fatto un articoletto "contro"
le acque aromatizzate, forse, come a Turiddu, mi ha suggerito il
vino, vuol dire che andrò fuori all'aperto.
Giovanni Rebora IL SECOLO XIX 20/01/2004
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