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Giovanni Rebora

Noi, fratelli in cucina

Una sera a cena, dopo una mia conferenza, un amico caro, professore di Diritto (era Giovanni Tarello), mi disse: “Invidio la tua ligurità, che non è solo genovesità, è ligurità”. Non era invidia, Giovanni non ne era capace, ma un complimento che mi è rimasto sempre gradito.
I miei più antichi erano liguri di Langasco, forse Langates, forse Vituri.

L'ho appreso dagli studi sulla tavola del Polcevera. Rebora e Boccardo (il cognome di mia madrea) erano gente di Langasco e Rebora è una piccolissima frazione tra Campomorone e Isoverde. Facevano il “coltellinaio” verso la fine del Quattrocento, me lo ha rivelato uno dei discendenti dei Rebora pastai in Sampierdarena, Sergio Giulio Rebora, professore di Storia dell'Arte. Poi andarono a Ovada, fecero il mercante e infine divennero trasportatori, tornarono a Sampierdarena e fecero il carattiere, con tanto di carri e di cavalli. Ai primi del Novecento c'erano ancora tre o quattro Rebora che avevano bottega da coltellinaio e facevano, soprattutto, falci e zappe.

Sono nato a cento metri dal mare, ma la mia nonna materna abitava in una casa dove arrivavano i marosi e gli spruzzi durante le mareggiate ed io me ne andavo da lei e aprivo la finestra, col permesso della bisnonna Nettlin, per godermi l'arrivo del salino.

Appresi a nuotare a Sampierdarena, quando c'era ancora un poco di mare, poi andammo al mare con la mamma e il fratellino, ai bagni Grifone di Calcinara e poi andai, stavolta da solo, a Castello Raggio ed infine a Pegli, al Lido dove c'era una spiaggia che riceveva dagli orti vicini un forte profumo di tomate (pomidoro). Poi, con la fidanzata, andammo a Vesima, e ci andammo dopo con i bambini e, devestata anche Vesima, decidemmo per Porto Maurizio. Il mare pulito si allontanava sempre più dal mio paese e si allontanavano gli orti della collina di Belvedere e di Promontorio, sparirono gli uliveti sopra il Fossato, sparirono le vecchie poste con osteria e sparì il mare di Sampierdarena.

Sparirono anche le colline, coperte ormai di palazzi, proprio là dove si andava a cercare qualche fungo. I funghi erano una risorsa importante ed erano anche una “passione” per chi era rimasto legato alla vita del suo tempo. Faceva ridere che qualcun andasse a pescare (soprattutto con la canna) o andasse per funghi, ma c'erano pesci e funghi e la cosa, oltre che divertente era anche “economica”, si potevano raccogliere boraggini, o altre erbe commestibili, si facevano i tagliolini verdi con il formaggio dentro e si condivano con il tocco di funghi. Quando pioveva d'estate, uscivano le chiocciole e andavo a raccoglierle, mi pare che Tacito racconti di un ligure che “andando a cercare chiocciole” sui monti della Tunisia vide, di là dai monti, l'accampamento nemico e avvertì i romani. Anche le chiocciole sono un “segno” di ligurità seppure condiviso con altri popoli.

Mio nonno materno mi insegnava i percorsi collinari per trovare erbe e funghi, sapeva cose, come dice il mio amico Flavio Baroncelli, noi abbiamo imparato leggendo mille libri, sapeva le erbe spontanee destinate alle tisane, per la nonna (egli beveva vino), sapeva le erbe che fungevano da “gusti” per la cucina.

Alla foce del Polcevera (Fiumara) arrivavano le semenze degli orti che il torrente trasportava da Pontedecimo a Sampierdarena, c'era un'isola di sassi in mezzo al fiume che faceva il suo estuario; sull'isola nascevano tutte la varietà di ortaggi coltivate lungo il fiume. C'erano pomidoro e melanzane, pateche e zucche, e altre cose. Ai bordi dell'isola una popolazione di beccaccini si nutriva di vermi che vivevano numerosi nel terreno umido e concimato dell'isola, e si potevano vedere i divertenti voltapietre che, con le ali incrociate dietro la schiena, voltavano i sassi e “pittavano” i vermetti che stavano sotto gli stessi.

Da grande andai a cercare funghi a Campoligure e a Voltaggio e finalmente, ormai diciottenne, a Sassello, là andava d'stater la “Pi”, cioè mia moglie, che c'era stata durante la guerra. Ne trovai tanti e insegnai a cercarli a mio figlio Federico, ancora oggi “grande trovatore”. Durante due soggiorni a Cornigliano, quando il mare era grosso, andavamo per funghi a San Bernardino, la montagna era impervia, ma ne trovavamo, ci veniva anche Lorenzo, il mio figlio più giovane.

Alla fine della guerra, il blocco del porto, a ponente, aveva prodotto tra le banchine in costruzione e la diga una sorta di canale di calma dove vivevano e venivano a riprodursi molte specie di pesci e dove entravano numerose laxerti, soelli e boghe, c'erano un'infinità di gamberetti grigi e, dotto la chiglia delle bettoline attraccate da anni, c'erano gamberi rosa, le anguille in uscita (capitoni) e, verso la Fiumara le anguille, più piccole, che si attardavano nelle pozze salmastre. Insomma, per un ragazzino era una sorta di paradiso, con i pesci facili in mare e le amarene a poche centinaia di metri verso il monte. Alla Fiumara avevamo l'orto, nutrito dalle stalle dei miei, e c'era la capra da mingere tutte le sere per il latte e per la prescinseua...

Ma tutto cambiò, l'illusione industrialista non durò più di trent'anni, ma venti chilometri della costa più bella del mondo furono distrutti. Pazienza, non vorrei apparire passatista, ma sono quelle cose che ho descritto a farmi sentire felice di essere nato qui: a Sampierdarena, intendo, ove posso sentirmi ancora polceverasco. Prima degli anni Sessanta, i pesci erano un cibo da rivieraschi, quelli piccoli, si capisce, perché i grandi pesci andavano direttamente ai signori e talvolta non passavano nemmeno dal mercato. Eppure, tra la gente della costa, esisteva una “cucina di pesce” che è poi scomparsa: si ritrova a Carloforte e a Calasetta, nel sud della Sardegna, dove ancora si parla genovese e dove, finché potrà durare, esiste quel modo di mangiare che era di Pegli, di Sampierdarena e di tutta la Riviera.

Quando i pescatori prendevano i bianchetti, i giovani partivano in “regata” per andare a venderli lontano (meno di un chilometro), erano i “regattoni” visto che da noi le corse si chiamavano regate, come le corse delle barche in mare. Quando arrivavano le acciughe si sentivano le grida “ancioe donne” e le donne scendevano a comperarle, erano pesci per tutti, pesci da poveri. Ora si dice “pesci poveri” come se fossero loro, i pesci, ad essere misci (al verde), e non noi, che non ce li possiamo permettere.

Ma veniamo alla Liguria, dove esistono rancori verso la Dominante che furono alimentati dai Savoia, ma che alcuni credono ancora che si tratti di cose vere, dimenticando bellamente che, al tempo della Repubblica, nessuno prestava servizio militare obbligatorio, che non c'erano, così, braccia strappate all'agricoltura. Non sanno (credo) che le tasse le pagavano i ricchi, con aliquote ridicole rispetto a quelle che arrivarono dopo Napoleone, né sanno che le innumerevoli imposte di consumo gravavano sì anche sui poveri, ma erano piuttosto statistiche che finanziarie; il ricavato, tra l'altro, andava a pagare i pochi funzionari e a migliorare le strutture. Basterebbe studiare l'approvvigionamento della carne e del vino per darsene conto. Ma si dovrebbe rinunciare ai luoghi comuni che ci permettono di litigare fra noi, da ignoranti sì, ma fieri di esserlo.

Quando si mise in opera, nel Cinquecento, l'espurgazione della darsena (cioè il riassetto e l'escavazione del fondale), la Repubblica si valse del diritto di leva per chiamare uomini da tutte le riviere, essi avrebbero dovuto prestare una settimana o due di lavoro, lavoro pagato. I sanremaschi scrissero che essi dovevano accudire agli agrumeti e che potevano mandare solo alcune barche. La Repubblica capì e accettò. Non dico altro, a buon intenditor...

Per fortuna, ragioni di lavoro e poi di villeggiatura mi hanno portato da Monaco a Sarzana, con soggiorni brevi ma ripetuti, oppure abbastanza lunghi. Io parlo genovese, mi diverto anche a cogliere le arcaicità del genovese nelle aree periferiche della parlata, con questa parlata ha trovato amici da Monaco a Sarzana. Ho trovato amici a Pontremoli e a Ventimiglia, per non parlare di Imperia dove mi trovo esattamente come a casa mia, così come a Savona...Nonostante le differenze di interessi, sostenute scioccamente da avversioni risalenti, appunto, alla propaganda savoiesca, la Liguria è un Paese che è stato raccolto intorno a Genova fin dal 1220. E' la prima regione, dopo il il Regno di Napoli, ad essere stata libera sin da Medioevo. Con tutte le peripezie che ogni storico può illustrare, ma intanto è unita da una parlata comune. Durante la guerra fui sfollato a Novi Ligure, città dai grandi e numerosi palazzi genovesi dei Seicento e del Settecento. Là i genovesi ricchi facevano le fiere dei cambi, ma ci andavano anche in villeggiatura, il paese intorno a Novi era bellissimo e lo è stato fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Ho imparato a parlare il linguaggio di Novi, ma faccio ridere perché ora parlo il novese di sessant'anni fa. I miei nonni andavano in campagna in una in una frazione di Bosio, così ho conosciuto Gavi e i suoi dintorni, si andava per funghi fin sulle pendici del Tobbio.

Insomma, se uno percorre il mio paese da Levante a Ponente e si addentra fin oltre l'Appennino, si sente sempre a casa sua e mangia come a casa sua. Mutatis mutandis, naturalmente. Nell'area di Imperia ho trovato una sorta di testaroli, che si chiamano “schiancùi”, simili nella composizione ai testaroli di Pontremoli e di Sarzana, seppure un poco più sottili, e vengono serviti “stracciati”. A Ventimiglia e nel suo entroterra ho imparato a bere rossese col brusso e a Pornassio mi è toccato il miglior ormeasco del mondo. La mia famiglia ha sempre acquistato l'olio nell'imperiese, e io faccio la stessa cosa, da oltre trent'anni andiamo a comperare l'olio da una famiglia di amici produttori. La cucina è simile ovunque, ma ovunque presenta caratteristiche locali di grande interesse: si tratta dei prodotti locali “freschi”, delle cose che un tempo si potevano fare anche a Genova, ma che ora si sono allontanate. Di fatto, però, con lievi differenze, il cibo accomuna i liguri come il linguaggio, parlo del cibo “dialettale”, quello che ha superato centinaia di esami ed è sempre stato promosso. Per questo le differenze non sono nei sostantivi (nella sostanza), ma nell'inflessione, nella “còcina” di ciascun paese. A Sampierdarena dal canto alla coscia, dalla strade nuove (Via Buranello) a Belvedere, si potevano sentire ben quattro o cinque còcine diverse, differenti accenti si direbbe, ma è meglio còcina.

Ogni città, ogni paese, anche piccolissimo, produce il suo cibo e lo pensa unico, le differenze invece sono solo negli accenti, ma va benissimo così, anche se ciascuno crede che le cose più comuni al mondo siano state inventate a casa sua. Le chiocciole di Triora sono le elix aspersa assolutamente identiche alle chiocciole di Barcellona, si cucinano anche allo stesso modo, che è il migliore, visto che va benissimo da centinaia di anni. Anche i conigli sono ben rappresentati in tutta la Liguria “di terra” e ciascuno sa di essere il depositario della ricetta migliore. Lungo la costa si faceva il cioppin, una zuppa di pesce con tante specie di piccola taglia, con la seppia, se c'era, o il polipo, con una piccola anguilla e,, nei casi migliori, una piccola murena. Ora, per i turisti, si abbellisce tutto con scampi e gamberi, rovinando la pietanza. Pazienza, direte voi, ma intanto quelle specie di pesci sono quasi del tutto sparite per far posto alle spiagge disinfettate. Giusto disinfettare, ma ditemi quanta gente è defunta a causa dei piccoli crostacei (pruxe maenn-e), che si annidavano nella sabbia e che attiravano i saraghi quando la risacca li sollevava. Le mormore venivano a cibarsi, nella sabbia, delle arenicole e del vermello; niente più arenicola né vermello: niente mormore. Scrivo dei pesci che si prendevano con la canna o con la lenza e che finivano nella zuppella descritta poche righe fa, oppure facevano il brodo per una zuppa più importante. Se volete quella zuppa dovete andarvene a Calasetta o a Carloforte, dove la zuppa si chiama “cassola”, alla catalana (guarda un po').

Nel Ponente si fa la sardenaira e la passaladier da Nizza ad Alassio, la farinata da Nizza alla Spezia. Le torte di verdura, con o senza la sfoglia sopra, sono ambite da tutti dall'estremo Ponente all'estremo Levante. I ravioli, poi, con le erbe o con la carne o con tutt'e due, pare che siano cose segretissime e degne di diplomi di originalità, ma Salimbene de Adam, che girava l'Europa alla metà del 1200, ne parla nei suoi scritti come di cose antiche e molto note ai suoi tempi. E' però vero che ovunque si vada, in Liguria, si possono incontrare cose buonissime; lasciamo stare i pesci, divenuti di gran moda dopo il 1960 a causa del turismo ed ormai introvabili per le preparazioni a accorte del passato, ma ci sono le verdure fritte, il latte brusco e quello dolce, i funghi freschi e quelli secchi e perfino salati, come si tentava di conservarli nel lontano passato. Se si sanno cogliere le differenti inflessioni dialettali, anche le lievi diversità della cucina diventano fonte di piacere e di curiosità.

Ci sono cose, poche, che sono davvero caratteristiche, come la capra con i fagioli dell'estremo Ponente, diffusa finché le capre vennero allevate per fare, con la pelle, otri per l'olio. Con l'arrivo della latta e dei mezzi di trasporto moderni le capre sparirono o quasi. Così sparirono le formaggette di capra anche dai paesi ove, anziché per l'olio, si usavano otri di capra per il vino. Ora non si fa il brodo di cappone, neppure l'oca ha ormai cucina diffusa e l'anitra viene servita in “tagliata”, ma i ravioli o gli agnolotti nel brodo di cappone erano e sono cose buone da condividere con gli amici, magari correggendo il brodo, dopo le prime cucchiaiate, con un vino generoso. Già il vino, bevetene un bicchiere al giorno e vi farà bene, ma se vi accorgerete che la cosa vi innervosisce provate con qualche bicchiere in più, favorisce il pisolino pomeridiano, vedrete che non uccide.

Io no ho ragione di essere “fiero” di essere ligure, i miei genitori mi sono capitati per caso ed anche il luogo di nascita, ma non è solo una questione di orgoglio o di fierezza, è che sono felice di esserlo, mi sento ligure e sono contento di abitare qui, in mezzo a questa gente piena di difetti che ha saputo essere repubblicana per mille anni, quando l'idea stessa di repubblica non piaceva a nessuno.

Ma siccome sono un incorreggibile ottimista, chiudo queste righe con una forte speranza: a Vesima l'acqua è tornata pulita, a Noli e Varigotti, ed anche nel levante, si rivedono acque chiare, a Spotorno e a Bergeggi c'è un bellissimo mare e si mangia benissimo. L'agricoltura ligure si sta convertendo ai prodotti di alta qualità, il vino ligure è diventato buono da levante a Ponente ed in qualche caso buonissimo, dell'olio devo ricordare che finalmente si producono anche oli di montagna e che sono stati fatti passi da gigante. Se non ci saranno impedimenti e pensate stolide, se si lascerà lavorare la gente senza spremerla con mille balzelli, anche tecnici, il nostro paese tornerà ad essere oltre che tra i più belli del mondo, anche un luogo di buona qualità della vita.

Giovanni Rebora – IL SECOLO XIX – 08/03/2005


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