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Giovanni Rebora

La novella di Ser Vieri e la difesa della qualità

Franco Sacchetti scrisse una novella (una delle Trecentonovelle, la n. CLXXVII) ambientata a Corniglia, la datò 1383 e raccontò piacevoli cose viste e sentite in quell'angolo di paradiso. Qui mi interessano poche parole, che mi paiono illuminanti su una mentalità che, negli ultimi due secoli, venne dimenticata. Si tratta del colloquio di Ser Vieri de' Bardi con il piovano dell'Antella, suo vicino, a proposito di certi magliuoli di vernaccia che messer Vieri voleva far venire da Corniglia. “Il Piovano, udendo messer Vieri, e avendone aùto voglia gran tempo (di avere magliuoli di vernaccia di Corniglia) disse: Ben fate; ma quanto io per me vorrei vitigni che facessero vino assai; cotesto è vitigno da far debito. Messer Vieri rispose: Io non lo pongo per avanzare, ma per farne cortesia”. La Vernaccia rendeva poco, faceva grappoli piccoli, Messer Vieri la voleva porre «per farne cortesia», cioè per offrire il vino agli amici. Gli altri vitigni, che Sacchetti cita come molto produttivi, ma di qualità bassa, sono ancora vivi, si tratta della cimiciattola, della verdigna o verdolina, dell'angiola e della sancolombana.


Queste poche righe contengono un'indicazione importante sulle scelte delle colture liguri: scelte di vitigni di alta qualità anche a scapito della quantità. L'organizzazione mercantile della Repubblica avrebbe provveduto alla distribuzione. La vernaccia di Corniglia era nota a Dante, a Boccaccio, naturalmente a Sacchetti e anche a papi e alti prelati, ciò garantiva la migliore pubblicità. A Ponente si produceva il moscatello di Taggia, che aveva clienti in Inghilterra e in Fiandra, da Alassio a Ospedaletti si coltivavano (fin dal XII secolo) limoni e cedri destinati all'esportazione, insieme con le palme di San Remo che andavano a Roma per la festività, appunto, delle palme. Nervi, Rapallo e Santa Margherita ospitavano vivai di piante da agrumeto. Insomma: vini di altissima qualità e celebrati in tutta l'Europa, agrumi da inviare alla corte papale di Avignone, ma anche alle comunità ebraiche del Nord Europa che utilizzavano i cedri per la loro festa dei Tabernacula (che è la stessa delle palme).


Genova acquistava seta greggia in Calabria e in Sicilia e la trasformava in velluti, lampassi, drappi serici di alta qualità, vendendo soprattutto "valore aggiunto". Insomma, la Repubblica visse per novecento anni vendendo prodotti "di eccellenza", di lusso, carichi di valore aggiunto. Trovò anche il modo di fornire olio d'oliva a tutto il mondo, olio destinato soprattutto all'industria, ma capace di lasciare una parte "commestibile" ai consumatori liguri. Dal XIII secolo in Liguria si produsse e si esportò pasta di semola di grano duro, grano acquistato in Sicilia e in Provenza e poi in Russia e ora in Canada, la materia prima fu sempre "straniera", ma l'intelligenza dei produttori e dei mercanti fu sempre ligure, e anche i soldi per gli investimenti: per fare la pasta ci volevano macchinari costosi e appositi edifici, solo i ricchi potevano investire somme cospicue per tutto questo.


A cosa serve questa lunga "tirata"? Serve a dire che ci siamo illusi di produrre le cose che altri sanno fare come noi o anche meglio, e se non meglio, a costi minori. Dopo circa due secoli ci siamo accorti che non siamo scemi, che abbiamo un clima e una terra che, se non ci permette di produrre milioni di tonnellate di soia, ci dà le fragole di bosco, quelle che si chiamano merelli e che c'erano prima della scoperta dell'America, ci permette di produrre sciroppo di rose, marmellate di lamponi e di mirtilli, verdure inimitabili, vini come il rossese e l'ormeasco o come i vermentini e i pigati. Ce ne siamo accorti perché abbiamo una terra che, con l'aiuto dell'intelligenza, fa un olio inimitabile e fa una cucina senza concorrenti; a meno che non si voglia rovinare tutto nel tentativo di essere "moderni" a tutti i costi. La ricerca della novità non significa "novità banali" a tutti i costi.


Se viaggio per la Liguria incontro amici e gente che sanno "fare", Dal Pian ha costruito un'azienda guida, altri hanno ora aziende medie e piccole, ma anche grandi, che producono prodotti di eccellenza. Pensiamo all'olio e al vino, che hanno fatto passi da gigante. Lasciamo stare il concetto di nicchia, che non mi serve (poco non significa buono), pensiamo a come possiamo fare le cose migliori del mondo. Né la Cina né le lontane Americhe potrebbero "fare Romanengo", ci vogliono due secoli di esperienza ed è questa esperienza che noi possiamo esportare. Com'è che la nostra pasta si esporta in tutto il mondo anche se la materia prima la compriamo all'estero? Non sarà che esportiamo anche storia insieme con l'esperienza?


La nostra biodiversità, insieme con la nostra sapienza (talvolta rissosa), sono la migliore garanzia del successo di gente che abita una piccola striscia di terra e che può valersi solo della qualità, dell'alta qualità. Ma varrebbe la pena che i produttori, magari associandosi, spendessero qualche euro per la ricerca. Ciascuno, da solo, dovrebbe caricarsi di costi eccessivi, ma insieme potrebbe accadere che qualcuno trovasse un enzima adatto al vermentino e uno adatto al pigato, che qualcuno trovasse qualcosa che non mi facesse parere tutto uguale il vino bianco, dall'Alpi al Lilibeo. Vorrei che si cercasse qui, lo so che è più comodo e meno costoso comprare gli enzimi da un paio di produttori internazionali, ma se si riuscisse a riavere un vermentino che sa di vermentino non mi parrebbe un passo indietro, né mi parrebbe un passo indietro se, invece di gabellare per biologico ciò che è impossibile produrre in natura senza interventi, si studiassero interventi possibili, innocui per noi e adatti alle diverse colture.


Giovanni Rebora – IL SECOLO XIX – 19/05/2005



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