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Rebora: Ripartiamo dalla ricerca |
Professor Rebora, lascia l'Università nella bufera.
Spiace. Il problema vero è che la ricerca non interessa più nessuno, e ci siamo ridotti a contrabbandare i Nobel americani come fossero i nostri.
I docenti lanciano l'allarme. E gli studenti?
I migliori sono quelli che lavorano, come sempre. Perché hanno interessi autentici, anche se magari sperano solo di migliorare la loro posizione con la laurea.
Gli altri no?
Negli altri la motivazione è scarsa. Certo posso capire, uno si iscrive a ingegneria per diventare ingegnere e poi, quando finalmente lo è, va a guadagnare un milione e mezzo come primo stipendio.
La fame.
La fame no. Però aveva ragione Marcel Mauss, quando scriveva che l'economia non è mossa dal bisogno ma dalla tendenza al lusso.
Lei è uno storico dell'alimentazione. Ci spiega?
Ho sempre trovato la retorica della fame, nelle varie epoche, impossibile da realizzare. Un morto di fame non fa la cupola del Brunelleschi. Non naviga. Non fa neanche figli, e oggi noi non saremmo qui.
Quindi nessuno ha mai fatto la fame?
Fatta sì, morto no. Le carestie ci sono sempre state, certo, ma in genere l'uomo ha chiamato fame l'infelicità. L'infelicità da mancanza di denaro.
Si sostiene il contrario, a proposito di denaro e felicità.
Provi, qualcuno, a farne a meno. A me risulta che si rubino i telefonini e non il pane. Del resto, è una fatto storico.
Ci fa un esempio?
Una volta c'erano i nobili che occupavano una terra con le armi e costringevano i contadini a lavorare per loro. Alla fine ai contadini veniva sempre voglia di avere gli abiti dei nobili, e per questo scoppiavano le rivolte. La fame non c'entrava: anche perché in campagna è impossibile patire la fame.
Lo sostiene lo storico?
Anche al contadino che aveva il peggior contratto non veniva mai a mancare l'uso dell'orto, quattro galline, un coniglio. Certo, se uno è scemo muore di fame anche in pasticceria, ma è difficile.
Lei ha sfatato molti miti, professore. Per esempio quello della carne cibo da ricchi.
I documenti provano il contrario. La carne, rispetto agli altri cibi, dal Cinquecento a tutto il Settecento era quello che costava meno in assoluto.
Perché?
Perché non aveva scarto. Perché il quinto quarto, pelle e corna, era forse quello più ambiguo. Perché quasi nessuno aveva i denti sani e poteva permettersi di mangiarla, la carne...
Avete fatto ricerche.
In archivio. Sul territorio. Ci siamo procurati le liste della spesa, le abbiamo analizzate e fatte analizzare. Il lavoro dell'Università dovrebbe essere questo.
Il vino di una volta: altro mito in frantumi...
In quel caso, forse bastava pensare agli strumenti che c'erano. Botti mal pulite, bucate, con i vermi...Ragazzi, l'acciaio è una bellezza.
E l'olio, professore?
Quando dicevano che sapeva di frantoio sapeva di sudicio, in realtà. Basti pensare che per la spremitura usavano il cestino di sparto, che è un'erba: avevano voglia a pulirlo, dopo.
Insomma: la Liguria bucolica non è mai esistita.
Ma per carità. Gli ulivi vengono piantati nel Trecento, in concomitanza con il boom dei lanifici fiorentini e genovesi. E una seconda ondata arriva nel Cinquecento, quando a comprare olio per la lana ci si mettono gli inglesi.
Torniamo a Marcel Mauss?
Si spendono più palanche al bar che in mensa. Si vive e si lavora per ottenere il superfluo. Lavorando sui documenti si scoprono cose curiosissime.
Lei ha insegnato una storia dell'economia particolare, professore.
A me hanno incuriosito la storia e l'economia del cibo. Mi sembrava che fosse inutile continuare a spiegare il grande capitale, la grande impresa, la grande conquista quando la gente si preoccupa di mangiare tre volte al giorno.
Ora però va in pensione.
E mi piacerebbe continuare a fare ricerca. Certo dovrò trovare finanziamenti, anche per pubblicare quelle trecento tesi che ho affidato. Sennò andranno al macero.
Al macero?
O finiranno in qualche archivio. Ma se nessuno saprà che ci sono, sarà stato un lavoro inutile.
Quante tesi ha assegnato, professore?
Almeno quattrocento. E trecento sono sicuramente buone, posso garantire, sarebbe un vero peccato sprecarle. Del resto: succede spesso.
Pare sia il problema numero uno dell'Università, quello dell'inutilità e degli sprechi.
Oggi una ricerca è troppe volte una raccolta bibliografica. Dove le note servono ai professori, per far capire che qualcuno li ha letti, e non ai lettori. Ma ci sono anche dei tesori, all'Università. Bisognerebbe ricominciare da lì.
Intervista di Paolo Crecchi IL SECOLO XIX 02/11/2002
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