Paolo
Fresu, uno dei jazzisti più celebrati d'Italia, e nome
d'oro anche ben oltre la penisola da molti, molti anni coltiva
molte e vivificanti esperienze sonore in aperta, solare, voluta
contraddizione: il solo totale con la tromba chiamata
ad interagire (anche con l'elettronica) negli spazi più
diversi, il canonico gruppo jazz, le note meticce che
saltano fuori quando ci si confronta con altre culture. Il suo
Festival di Berchidda, poi, è davvero spazio aperto dove
tutto può accadere. Qualche anno fa nel cuore sonoro della
Sardegna Fresu ha voluto che ci fosse a scorazzare per il paese
quell'onda d'urto in musica che è la Kocani Orkestar: una
fanfara macedone che si tira dietro la gente come il pifferaio
delle fiabe. Lì sta il seme di quello che ora è
diventato un dischetto magico, imprendibile, folle e savio come
tutta la buona musica: Kocani Orkestar meets Paolo Fresu &
Antonello Salis, da poco pubblicato dalle edizioni de il
manifesto. Tutte registrazioni dal vivo (Ravenna, Roma,
Foligno), per cogliere l'attimo e l'irripetibile. Il terzo nome
sulla copertina compare perché della partita è
anche un altro sardo eccellente, Salis, quell'Ariel inquieto dei
tasti bianchi e neri che spesso spariglia le carte della nostra
musica educata: Quando Sabino Martiradonna (che è il
manager italiano della Kocani, ndr) mi ha chiesto se
poteva essere una buona idea quella di invitare anche un altro
solista io ho pensato subito e senza dubbi ad Antonello -
racconta Fresu - e non credo che sia necessario spiegare il
perché. All'origine lui suonava solo la fisarmonica (nella
prima versione della Kocani c'era anche un fisarmonicista e loro
si divertivano a fare duetti vari...) ma poi si è deciso
anche ad utilizzare il pianoforte.
In quale
momento hai capito che si sarebbe stabilita un'intesa perfetta
con la Kocani? Quanto tempo avete provato?
Lo avevo
già capito a Berchidda quando li avevo invitati per tutta
la durata del Festival quattro o cinque anni fa. I primi giorni
si esibivano nelle strade del paese e poi, l'ultimo giorno, hanno
chiuso il Festival nel palco centrale con una grande festa al
punto che, per chiudere il concerto dopo più di due ore e
mezza, sono dovuti scendere dal palco portandosi via le migliaia
di persone che continuavano ad acclamarli e che avevano ballato
come forsennati per tutta la sera. L'energia della loro musica
era talmente forte e talmente vera che non poteva lasciare
indifferenti. Ci siamo rivisti dopo un anno e mezzo a Faenza e lì
abbiamo provato per tre giorni prima di tenere il primo concerto.
Intanto io avevo scelto tre dei miei brani e li avevo spediti per
posta. Non partiture naturalmente, ma solo un cd con i brani
registrati. L'arrangiamento poi lo hanno fatto loro. Quando ci
siamo incontrati a Faenza io ho dato solo pochissime indicazioni,
mentre per il loro repertorio io ed Antonello abbiamo cercato di
buttarci a capofitto nella musica per cercare di apprendere non
solo i temi, ma anche quel certo modo di suonare. Oggi mi sembra
che siamo ancora più vicini alla loro poetica ma anche
capaci di apportare un nostro contributo. E viceversa.
Come
hai trovato il modo per inserirti con il tuo fraseggio jazz tra i
fiati della Kocani, intessuti di melismi, tempi tambureggianti e
ternari? Dipende da questo il tuo uso frequente della tromba
filtrata, quasi a marcare l'incontro, il dialogo
possibile?
Ho cercato di apprendere quel loro modo di
infiorettare le melodie. Ma mi sono anche posto il problema del
tipo di suono che doveva in qualche modo essere diverso dal loro
e, allo stesso tempo, amalgamarsi portando qualcosa di nuovo. In
questo senso l'uso dell'elettronica non è stato difficile.
Io la uso con un certo senso tribale che è poi
anche quello dell'amico e collega Jon Hassell. Del resto loro
hanno accettato subito questi contributi ed oggi, soprattutto con
i due trombettisti, c'è un gran scambio musicale.
Come
è avvenuta la scelta dei pezzi dai rispettivi
repertori?
Loro hanno proposto parte delle loro cose e
suonandole abbiamo capito quali potevano funzionare meglio. Io ho
proposto tre dei miei brani che mi sembravano più adatti.
Una Variazione su un ballo sardo tradizionale perché
sentivo che quel tipo di ritmo era assolutamente in sintonia con
quello loro e perché le frasi musicali ternarie e
ripetitive erano molto simili a quel loro modo di cantare le
frasi. Poi .... Del Viaggio che avevo scritto per il film
su Ilaria Alpi perché era stato concepito proprio per un
momento del film dove lei affrontava con il suo cameraman un
viaggio nei Balcani martoriati dalla guerra. E poi Notti a
Mogadiscio che era stato scritto sempre per lo stesso film e
che, per l'andamento melodico e ritmico, mi sembrava molto nelle
loro corde... anzi, nei loro ottoni! A parte questo assieme ad
Antonello Salis ci siamo ricavati due momenti di duo: uno è
la mia composizione Abbamele che si aggancia ad un loro
pezzo ed un altro è invece un momento completamente
improvvisato dove ogni sera suoniamo quello che ci passa per la
testa. Mi sono divertito moltissimo.
Hai timore o
indifferenza rispetto a chi troverà da dire che quella
delle brass band balcaniche è una moda nel
filone world music dell'indistinto?
L'indistinto
è l'incapacità di distinguere o, ancora meglio,
l'apatia nel riconoscere le differenze. Per questo la mia è
totale indifferenza all'indifferenza e all'indistinto (e il
bisticcio di parole è voluto). Del resto non ho mai fatto
le cose perché erano di moda. Altrimenti sarei andato a
Sanremo. A proposito: durante la sera finale del Festival ero a
Brescia a tenere un concerto di musica sacra sardo/tunisina/Arvo
Pärt...
Mentre è uscito anche il progetto
P.A.F in studio, contemporaneamente è
in circolazione Ethnografie. Come spiegheresti
ai soliti scettici il fatto apparentemente contraddittorio che il
disco esce per celebrare il trentennale dell'Istituto superiore
regionale etnografico di Nuoro, e tu hai invece agito mettendo
assieme le culture più diverse, le sonorità più
lontane, il nord e il sud, il sacro e il profano?
Se
la tradizione non è in divenire rischia di morire. Quando
l'Istituto etnografico mi ha chiesto un progetto sui suoi
trent'anni ho provato a calarmi nei compiti di una istituzione
museale come quella ed ho pensato che il ruolo di un museo non è
solo quello di conservare. Questo è anche il
senso della tradizione: non dimenticare il passato, ma allo
stesso tempo porsi il problema dell'attualità e del
futuro. Per questo ho pensato di coinvolgere tutti quegli artisti
così diversi. Mi piaceva l'idea di dare le chiavi della
nostra cultura nella mani di artisti che venivano da lontano per
rispettare un pensiero per me importante. La Sardegna è
un'isola che sta in mezzo al Mediterraneo. Crocevia di culture
dell'acqua e della terra ma non terra chiusa come potrebbe
sembrare. Essere crocevia del Mediterraneo significa essere
crocevia del mondo. E se il Mediterraneo è la culla delle
civiltà assieme all'Africa noi non possiamo mostrarci
chiusi o indifferenti verso il mondo.
Il tuo carnet di
collaborazioni con musicisti del pianeta è ormai
vastissimo. Ci sarà però un angolo della musica «di
collaborazione» che hai necessità (voglia,
curiosità) di esplorare?
Ce ne sono tanti ma
non li cerco perché devono arrivare da soli. Adesso sono
in partenza per il Sudafrica. Nella Zululand tra Phoenix e Durban
rincontrerò gli Zulù con i quali ho collaborato nel
settembre scorso e nascerà un film documentario girato da
Ferdinando Vicentini Orgnani su questa nostra bella storia
musicale ed umana.
Intervista di Guido
Festinese IL MANIFESTO 23/03/2005
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