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Peter Gabriel, l'alchimista del rock |
Nel duemiladue i suoi occhi brillano come nel 1972, quando se la prendeva comicamente ed eroicamente con l'Apocalisse in Supper's Ready e aveva i capelli lunghi divisi da un largo solco alieno al centro del cranio. Oggi lo sguardo è lo stesso, un po' beffardo un po' tenero, sotto una pelata bianca che luccica nell'effluvio di luci che gli si vorticano intorno. Lui sembra quasi un po' spaesato, come se non fosse lo stesso che nel '93 conquistò i palasport di mezzo mondo con dei concerti teatral-tecnologici-mondialisti, di quelli che segnano un prima e un dopo nella storia della musica. Guarda timido verso l'adorante e tumultuosa platea dell'Alcatraz di Milano il signor Peter Gabriel (52 anni, almeno 95 chili sulla buzza e pizzetto bianco come le colombe di Picasso): qui, lunedì sera, ha celebrato il suo ritorno dopo dieci anni di assenza e spasmodica attesa, accolto come un dio del rock e al tempo stesso come uno di noi, uno a cui vogliamo bene...per un milione di motivi: poiché insieme ai Genesis, scrivendone alcune delle pagine più belle, ha contribuito negli anni '70 ad inventare il rock progressivo (e poi a distruggere la retorica), perché ha preavvertito l'onda anomala del punk e della new wave (quando i suoi compagni di viaggio e di generazione stavano per diventare dei dinosauri), perché ha scritto l'inno anti-apartheid Biko, perché ha inventato la world music senza mai diventarne lo schiavo, perché ha fatto conoscere al mondo la grandezza di musicisti senza confini venuti da lontano (Nusrat Fateh Ali Khan su tutti), perché si è battuto sempre per i diritti umani, perché, perché, perché...comunque, è uno dei musicisti più influenti degli ultimi quarant'anni. E perché, come si dice, non se la tira. Mai. Ebbene sì, Peter Gabriel è tornato. Abbigliato con larghe fogge nere, nascosto dietro tastiere e computer. I duemila dell'Alcatraz scandiscono Peter, Peter, Peter e lui parte con uno dei pezzi nuovi (quelli di Up, il primo album vero da dieci anni, uno dei più attesi, probabilmente, dell'intera storia del rock, che sarà disponibile nei negozi dal prossimo 21 settembre): parte Darkness, ed è durezza quasi crimsoniana, implacabile, alternata a melodiche aperture come nera roccia lavica in cui si aprono squarci di luce bianca. Subito capisci dove siamo: in un non-tempo gabrielliano, dove futuro e passato si confondono in una sonorità perfetta, che non ha altro marchi se non lo stesso Peter Gabriel. Il palco è semplice, spoglio, minimalista, quasi stretto, tutta un'altra cosa rispetto alla rutilanza del Secret world tour di nove anni fa, dove c'erano pedane, tapi roulant, telecamere digitali che proiettavano si megaschermi i bulbi oculari del nostro a dispiegare al mondo le viscere dell'inconscio usando tutti i mezzi leciti della spettacolarizzazione. Oggi Peter Gabriel è altrove: è, per dirla con le sue stesse parole, nell'acqua e nell'aria, nel cielo e nella terra, è uno che sta reimparando a stare sulla luce della ribalta. E lo fa con due dei suoi sodali di viaggio più fidati: il grande, buono e vecchio Tony Levin al basso, al violoncello e al contrabbasso elettrico (molte ola si sono levate al suo indirizzo, confermandolo come uno dei pochi bassisti oggetti di un culto) e l'ottimo David Rhodes alla chitarra. Poi ci sono i nuovi:la brava bella e simpatica Rachel Z. alle tastiere, la figlia Melanie ai cori, Richard Evans al flauto e alla chitarra e Gad Lynch alla batteria (ahimé, per quanto sia bravo, si fa sentire la mancanza di un fuoriclasse assoluto, dal tocco lieve e fulminante al tempo stesso, come Manu Katché). Pur nella sua estrema semplicità, la partitura di Gabriel è ovviamente dispiegata in maniera perfetta: si susseguono la vecchia (e poderosissima) Red Rain e la nuova Growing Up, rarefatta e insinuante e Mercy Street, sobriamente drammatica No Way Out e una Digging in the Dirt pulsante e cattiva, di cui tira fuori con prepotenza tutte le potenzialità nera di canzone soul. Ogni volta hai la sensazione che le canzoni nuove siano come le vecchie (eccolo, il marchio di fabbrica Gabriel, che rende una sua composizione diversa da qualsiasi altra cosa si senta nel mondo anche quando sembra normale, esattamente come accade in The Barry Williams Show, il primo singolo tratto da Up) e poi scopri un milione di dettagli, di piccole perversioni sonore raffinatissime che si spalmano come una patina vibratile su tutta la musica: una sonorità perfetta ma carnosa, ricca come non lo è mai stata, brulicante di vita. Anzi, di tante vite diverse: dove i piccoli furti dal sentimento dei mondi che la terra canta s'immergono in un fiume sonoro che non conosce debiti. Eh sì, perché Gabriel ha saputo essere anche sporco (ai tempi del suo terzo album, 1980, quello di Intruder e I Don't Remember, quando il nostro aveva già un passato alle spalle). Oggi, invece, quasi quasi recupera l'ariosità e la complessità armonica dei Genesis di The Lamb Lies Down on Broadway, 1974, senza però fare l'auto-macchietta o piangere sul latte versato, senza che ti ritrovi a pensare sì vabbè, prima però era meglio.... Il fatto è che Peter Gabriel è l'unico della sua generazione ha cominciato a fare dischi negli anni '60) a non dover sempre render conto del suo passato: nessuno gli chiede degli anni '70 o dei Genesis, nessuno si stupisce del fatto che non esegua Supper's ready e si presenti con un fiore ficcato sulla testa. Lo amano, qui all'Alcatraz, lo amano perché ti premette di amare il presente senza entrare in conflitto con la storia, la sua e quella di tutti coloro che sono qui: dotato della miracolosa capacità di proiettarsi sempre in avanti, Peter ha una voce morbida e ampia e profonda come non ce l'aveva nemmeno dieci, venti o trenta anni fa. Già, trent'anni fa, quando cantando The Knife con i vecchi Genesis si buttava sul pubblico (una volta ci ha rimesso anche qualche costola...) oggi in fondo ha con il pubblico lo stesso rapporto, solo che c'è di mezzo un bel pancione e tre decadi di più: dopo un po' non ce la fa più a starsene da solo dietro la tastiera, le mani si alzano a migliaia verso di lui, e come se oggi fosse ieri e ieri fosse oggi, corre su e giù per il palco, sobillando tutti, il 52enne canuto Gabriel, con una versione di Sledgehammer che è la più eccitante e potente che si sia sentita, una cosa che oggi, nel 2002, non crederesti provenire dai fondali degli anni '80. In Your Eyes, dopo due ore di concerto di quelli che ti entrano nelle ossa e ti spossano lo spirito, è il tripudio: ormai Peter scherza, fa il balletto con Levin & Rhodes, i duemila dell'Alcatraz sono pronti ad essere stupiti perché Gabriel li ha abituati a stupirsi, la canzone è un fiume li ha abituati a stupirsi, la canzone è un fiume magmatico ed emozionante, e Peter arriva a cantare con mille voci, la sua britannica voce che si fa africana, asiatica...senza arrogarsi il diritto di trascendere il rock inglese, che è la sua mamma e la sua casa. Roberto Brunelli L'UNITA' 18/09/2002 |
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