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MUSICA

Fermate i Radiohead, la loro casa è il pop

Entri nel piccolo Olympia, al 73 di Dame Street, e capisci subito che la grande ambizione dei Radiohead è sempre la stessa: sfuggire a qualsiasi strada già percorsa, anche da loro. Ambizione che li aveva affossati nei meandri più oscuri della sperimentazione, quella aggrovigliata su se stessa con dischi fin troppo criptici come Kid A e Amnesiac, dischi che negavano la comunicazione nel tentativo disperato di sorpassare la forma-canzone. Si aprono le porte del teatro di Dublino in stile vittoriano – decisamente decadente – dovei cinque hanno deciso di iniziare lo scorso sabato il loro tour mondiale ed è chiaro che i percorsi tortuosi i Radiohead li hanno lasciati a qualcun altro. Un labtop-man a cui è affidata l'apertura della serata, l'attuale frontiera della sperimentazione musicale, il dj che si serve solo del suo computer portatile per mixare brani tra di loro. Dopo questo parantesi arrivano i cinque di Oxford, la loro idiosincrasia per l'apparire che li sfuma tra le luci basse del teatro, il “front-man non front-man” che alterna l'immobilità totale a contorsionismi nervosi. Sul piatto c'è il nuovo disco Hail to the thief (che uscirà il 9 giugno e che porteranno il 7 luglio a Bergamo, l'8 e il 9 a Firenze, l'11 e 12 a Ferrara), album che Thom Yorke e soci hanno deciso di presentare in luoghi d'arte per rimanere simbolicamente in bilico tra storia e azzardo (ovvero il rumorismo, il sintetico dilaniante di cui pennellano le loro canzoni). Ventitré brani in quasi due ore di musica per dimostrare di avere fatto ancora un nuovo passo avanti. Due ore che diventano banco di prova per una band che con ossessione quasi didascalica cerca da tre album a questa parte di fuggire dalle tracce che lei stessa ha lasciato sulla strada del pop briatannico. Riuscendoci? In parte. Il fatto è che i Radiohead sono stati negli ultimi lavori (quelli osannati fin eccessivamente da chi vede “sperimentalismo” in ogni rumore di ferri vecchi), troppo spesso forma travestita da sostanza. Quella forma (la chiamano dilatata, ipnotica, schizo-psichedelica) che nelle cose meno riuscite gli ha fatto guadagnare l'appellativo di Pink Floyd della nuova era, intendendo gli ultimi Pink Floyd, che non è un gran complimento. Maldestro clone che nell'apertura del tour si è materializzato in un brano come Lucky (da Ok computer) per poi lasciar spazio a quello strano ma affascinante compromesso che è l'ultimo disco Hail to the thief: grandi canzoni nel senso classico del termine (pezzi come 2+2=5, Myxomatosis, Go to sleep, There there) e dilatazioni oniriche, con i testi di Yorke a descrivere squarci di mondo angoscianti, e un desiderio inusuale: quello di farsi comprendere, a partire dal titolo del disco: Hail to the thief, Ode al ladro, frase con cui parte della stampa statunitense aveva salutato l'elezione di Bush jr.

Questo il problema dei Radiohead degli ultimi anni, uno slancio tutto intellettuale che si è risolto in un enorme lavori di produzione (il che significa soppesare ogni linea melodica, ogni micro-rumorismo, ogni anelito di voce in fase di registrazione del disco) ma che si smaschera dal vivo quando quegli stessi pezzi non hanno la medesima forza comunicativa. In concerto anche al fan più sfegatato della band inglese (e a Dublino erano un migliaio a sapere ogni brano a memoria) che predilige sempre un pezzo come Just (dal secondo disco The bends), ad uno come il nuovo The gloaming (pastiche di bassi roboanti), che nel bis canta con disperata foga Karma police e apprezza tra le nuove canzoni un brano come 2+2=5, (tutta coretti alla Beatles e poi un'esplosione in pieno stile Nirvana) o Go to sleep, bella ballata semi-acustica che inaspettatamente cita gli Animals.

Alienandoci le simpatie di chi “di chi di rock indipendente se ne intende” e staccandoci dalla consuetudine di dare dieci e lode ad ogni disco che esce dei Radiohead a scatola chiusa, dobbiamo ammettere che nel nuovo Hail to the thief dove i nostri tornano agli esordi, fanno centro, dove continuano nella loro ossessione avanguardista, falliscono. Esordi che significano la canzone, ebbene sì, proprio lei, quella tanto bistrattata e macinata in mille pezzi con mania da miniaturista. L'ossessione di non calcare esattamente i propri passi però in parte rimane: ecco allora che del loro primo periodo salvano e ripropongono solo Just e che dal lori album più riuscito, Ok computer, oltre a Lucky, concedono solo Paranoid Android e Karma Police mentre decidono di suonare ben dieci brani dei quattordici del nuovo cd.

Il meglio dei nuovi Radiohead dal vivo arriva quando in un pezzo come Mycromatosis Yorke canta (sì, incredibile, canta senza annullarsi nella solita nenia) con disperazione quasi punk, ricordando a tratti la maledizione di Kurt Cobain. Il meglio viene quando arriva la versione di Hunting bears (da Amnesiac) tutta incentrata sulle percussioni, quasi ancestrale nonostante i suoni sintetici che dominano tutto il concerto. Arriva quando la voce di quel burattino schizofrenico che sul palco è Thom Yorke, anziché ricordare Tim Buckley (come era successo in alcuni episodi del disco precedente, Amnesiac), evoca Jeff, l'angelo che si era (quasi) affrancato dell'ossessione paranoica del padre. Quanto loro stessi riescono a liberarsi dalla loro paura stritolante di ripetersi.

Silvia Boschero – L'UNITA' – 20/05/2003



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