Raoul Peck per un attimo si
commuove quando gli chiedono se le storie del film sono vere.
Respira a fondo, poi risponde che sì, che tutto è
accaduto, anche di quella donna che quando non ha più
nulla da perdere venduta dai caritatevoli preti insieme alle
altre ai massacratori hutu, si fa saltare con una granata.
Sometimes in April è il suo film sul Rwanda, sul
genocidio del `94 e insieme come già Lumumba sui
colonialismi occidentali, su guerre e rivendicazioni di
multinazionali e economie globali. La sua attrice, Carole
Karemera, rwandese nata e cresciuta in Belgio, sussurra
determinata: «oggi non vogliamo più parlare di hut e
di tutsi, vogliamo tenere viva la memoria non la vendetta per
costruire insieme il nuovo paese».
Sometimes
in April racconta il genocidio del Rwanda a partire dalla
politica colonialista di Francia e Belgio.
Non avevo
mai pensato di fare un film sul genocidio finché non ho
cominciato a lavorare su Sometimes in April. Dopo dieci
anni c'è ancora una ignoranza profonda e una grande
superficialità di analisi. Non è soltanto colpa dei
meccanismi di informazione. Anche chi fa bene il proprio lavoro
ha sempre qualcuno sopra di lui che gli impone delle linee, un
caposervizio, un editore, e è sempre più difficile
parlare con onestà di certi argomenti specie se il mondo
nella sua maggioranza ha deciso che non vuole sapere. Fare questo
film è stato molto importante, è stato importante
farlo insieme ai rwandesi.
In che modo?
Abbiamo
girato per tutto il paese, dovevamo essere il più
possibile sicuri delle persone con cui lavoravamo. Per questo sul
set ci sono sempre stata degli psicologi. Chiedevamo se erano
d'accordo a interpretare dei massacratori. Molti ci hanno
risposto di no, che non sarebbero riusciti mai a farlo. Tutto il
lavoro del film si è svolto sempre su un terreno comune.
Ascoltavamo le impressioni e i ricordi, cercavo di non spingere
troppo sulle loro emozioni.
Sometimes in April è
prodotto dal canale Usa Hbo. Ha avuto indicazioni di scelte
obbligate?
Assolutamente no. Anzi hanno appoggiato il
mio punto di vista, il fatto cioè che un film di fiction
dovesse essere il più possibile forte e complesso. Il mio
obbiettivo era far capire al mondo cosa significa quel genocidio,
che non è soltanto la storia di neri che ammazzano altri
neri, e rimanda invece alla storia dell'umanità.
E
la scelta di non mostrare direttamente il coinvolgimento belga e
francese nel supporto all'esercito hutu, che pure nel fuori campo
è molto evidente, puntando invece sul ruolo degli Stati
uniti e dell'allora presidente Clinton?
Riguardo ai
francesi e ai belgi sì, c'è almeno un'ora di girato
che è rimasta fuori dal montaggio dove vediamo come ai
primi di maggio, quando il massacro va avanti già da un
mese, i francesi fanno ancora arrivare le armi in Rwanda. E poi
l'inizio, dove ho usato un girato d'epoca coloniale. Per quanto
riguarda gli americani, il supporto politico all'allora
presidente Habyarimana faceva parte del gioco di interessi sulla
zona. Però scatenata la guerra ne sono stati lontani e del
resto sappiamo anche che già da molto tempo la situazione
era fuori controllo, almeno rispetto ai poteri del contigente Onu
stanziato dopo il primo conflitto.
Nel rappresentare i
massacri ha scelto di suggerire la violenza più che
mostrarla.
Non mi interessava ricostruire sequenze di
atrocità. Ho scelto solo alcune immagini di morte perché
allora avevano fatto il giro del mondo. Ma il genocidio in Rwanda
non ha molte immagini, si è svolto senza telecamere, i
giornalisti erano tutti partiti.
Il film nell'andare
avanti sfuma la divisione hutu/tutsi. A un certo punto non si sa
più chi uccide e chi viene ucciso.
Non credo
che serva classificare le vittime, un genocidio è un
sistema che si radica in anni e anni, determinato sempre da una
guerra in cui uomini e donne cambiano, diventano assassini. Per
costruire il futuro non serve classificare le vittime, servono
conoscenza della storia e lucidità del presente. Non è
facile ricominciare ma sono rimasto colpito dall'energia del
paese.
Torniamo alla questione coloniale.
È
lì che comincia tutto, hut e tutsi vivevano in pace
dividendo cultura, beni... Poi sono arrivati i belgi, hanno
cominciato a dividere le persone, a scrivere la loro identità
sui documenti, a misurare il naso, il cranio... Soprattutto a
costruire un nemico, a determinarlo, in quanto gli era utile per
mantenere il controllo sul paese. I tutsi erano i ricchi, gli
hutu gli emarginati, è il meccanismo che regola tutte le
politiche colonialiste. Ripeto però: quanto è
accaduto in Rwanda non è una guerra tribale. Liquidarla
così è solo segno di ipocrisia e arroganza
dell'occidente, e anche un modo per continuare le sue politiche
di distruzione dell'Africa. Nessuno considera l'Olocausto una
guerra tribale, e non c'è un solo giorno che non pensi a
quanto è accaduto in Germania settant'anni fa, in un paese
che era il centro culturale del mondo.
Intervista di Cristina Piccino
IL MANIFESTO 18/02/2005
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