Guardi la copertina
del nuovo disco di Renato Zero: lui è lì, occhi
chiusi, posa da pensatore, drammaticamente caravaggesco. Dici: ci
risiamo, ecco un altro disco romantico-accorato di un signore che
ha perso la voglia di sorprenderci e di scherzare su se stesso.
Invece no, in parte. Il dono ci restituisce anche lo Zero più
strampalato: uno che si toglie finalmente il vestito
scuro, cede di nuovo alla sua ironia. Ma cè anche lo
Zero nostalgico, quella di Una vita fa dove si rievoca
squattrinato e felice. Allora era un altro Renato Zero, ma anche
unaltra Roma.
Quanto
è cambiata la tua città da allora?
La
cosa più eclatante è il fatto che i romani sono
stati evacuati dalla città, dalle loro radici. Gli fu
detto che era demodè a gennaio recarsi sul ballatoio per
fare un bisogno corporeo; oggi quei ballatoi sono diventati
attici costosissimi e il cuore della città non appartiene
più ai suoi abitanti.
La
Roma della tua infanzia è stata in parte descritta
dallopera di Pasolini. Che rapporto hai con la sua poetica?
Fu
un rapporto inizialmente di grande sospetto, inquietudine. Mi
raccontavano di un Pasolini borderline e non lo
digerivo. Ma ero troppo giovane. Poi mi sono imbattuto nei suoi
scritti, nei suoi film e nelle sue apparizioni televisive dove
era regolarmente processato. Lì ho capito quanto fosse una
figura necessaria per intraprendere un cambiamento necessario. Un
talento speciale che aveva già previsto certe
modificazioni sociali, che ci aveva insegnato a diffidare del
doppiopetto, di una certa borghesia ambigua.
Tu
invece sei di natura più mediatore
Io
sto esattamente dallaltra parte della riva. Mi è
sempre piaciuto camuffarmi, non dare mai lidea di dove mi
trovassi esattamente.
Opportunismo?
No.
Un modo come un altro di fare la regia di se stesso. Voglia di
interpretarmi col camuffamento estetico, la strada della
stravaganza. Una strada che altro non era che un modo per
esercitare negli altri un fastidio, per capire chi erano i miei
nemici e chi i miei alleati.
Oggi
non hai più motivo di essere stravagante? Rischi però
di apparire quasi tradizionale, se non reazionario
Il
fatto è che è già tutto così
stravagante
Ed è una stravaganza istituzionale.
Dunque sento il bisogno di guardare indietro, riappropriarmi di
modelli lontani come Dio, i miei genitori. Una volta il mito del
quartiere era il nonno, il prete, il farmacista, il poliziotto o
anche lo scemo del villaggio. Oggi la comunicazione ti dice di
salire su un treno in corsa, ma il treno è truccato e non
sai dove ti porta.
Poi
cè il modello americano, su cui ironizzi cantando
America stai bene lì così lontana / tra luci
ed opulenza / sei ieratica / ti aggiudichi quanto puoi.
Avresti potuto essere più duro
Preferisco
questo linguaggio. Ho voluto rappresentare un disagio reale: il
fatto che la nostra identità venga messa in discussione
dalla potenza di un paese che si permette di rappresentarci. È
un problema di prevaricazione. Questa finta tutela, questo essere
la polizia del mondo mi fa incazzare. Soprattutto oggi con
unEuropa consolidata che dovrebbe essere in grado di
gestirsi. E invece per colpa di un contratto ci troviamo privati
della possibilità di scegliere.
Patriottico
Certo,
io mi sento un campanilista, ma non accetto supinamente ciò
che accade nel mio paese. Spero solo che un giorno ritroveremo la
forza, il temperamento per scendere nuovamente in piazza e
reclamare i nostri diritti.
Però
in una canzone sottolinei come tu non abbia bandiere
Il desiderio di
cambiare il nostro futuro non è tesserabile. Ma è
un dovere a cui non mi sono mai sottratto. La politica, no, non
mi piace. Quello è il lavoro sporco, è un derby
truccato.
Intervista
di Silvia Boschero LUNITA 21/11/2005
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