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MUSICA

 Leoncarlo Settimelli

'na voce e 'na chitarra. Se ne è andato Roberto Murolo, un interprete di Napoli


Quando c’era la radio e solo quella, la voce di Murolo arrivava carezzevole e discreta, con quel leggero tremolo che era la sua caratteristica, facendoci dannare sui versi di canzoni come Scalinatella, e ‘O ciucciariello, che noi toscani - ma immagino i lumbard e i veneti… – stentavamo a capire. Che voleva dire «cercammèlla» e «trovammèlla»? Si andava per intuito, ma c’era quella voce definita «vellutata» a inchiodarci all’ascolto. Poi Murolo sparì dalla scena, noi crescevamo a pane e Quartetto Cetra, a rock e Platters, a Buscaglione e Carosone. Quest’ultimo, in particolare, era Napoli in persona e non c’era posto per altri. Sapemmo dopo che quello di Murolo non era un ritiro dalle scene, ma un incidente di percorso, di cui si fece grande scandalo allora. Ebbe guai giudiziari e per risalire la china ci vollero anni. Ritirato nella sua casa al Vomero, coccolato dalle sorelle e dalle amiche, lavorava segretamente e umilmente a quella che sarebbe stata la sua rinascita, una raccolta di canzoni da lui interpretata dal titolo Napoletana, un cofanetto di vari LP che sarebbe rimasta fondamentale nella storia della canzone del Golfo.

Eppure, a ben guardare, il segreto di Murolo è stato proprio contraddire lo stile napoletano e le furie paterne. Queste ultime si erano risvegliate orgogliosamente quando Roberto aveva una decina d’anni o giù di lì (era nato il 23 gennaio 1912), e già strimpellava la chitarra. Il padre, il poeta Ernesto, nonché paroliere, autore di canzoni come Napule ca se ne va, era uno strenuo difensore della tradizione. «Gli insospettabili complici della denigrazione e dell’invasione di canzonette-italo-sanscrito-babilonesi – tuonava Murolo padre nel 1922 - sono proprio gli interpreti puro sangue napoletano!».

Ce l’aveva con Cesare Andrea Bixio e tutti quegli autori che scrivevano canzoni su ritmi di tango, fox-trot, one-step e black-bottom e che si intitolavano Cielo d’Honan o Danza come sai danzare tu, orecchiando la musica d’oltre oceano.
Ebbene, Roberto – penultimo di sette figli – appena fu in grado di mettere le mani sulla chitarra, che studiò con un maestro, fece fare al babbo un balzo sulla sedia, quando questi lo sentì cercare gli accordi di melodie americaneggianti e in particolare di quello stile swing che le orchestre italiane e cantanti come Rabagliati e Natalino Otto gettavano a piena voce nei microfoni della radio e nei dischi. Ancora per poco, poiché il fascismo avrebbe dato l’ostracismo alla musica «negroide e sinagogale», dal momento che l’alleato nazista Goebbels aveva definito «degenerata» quella musica.

Insomma, nel 1936 Roberto Murolo forma e va a far parte di un quartetto che prende il nome di MIDA, dalle iniziali dei componenti Murolo, Imperatrice, D’Acova e Arcamone. Come per il quartetto Cetra, il modello sono i Mills Brothers, quattro cantanti di colore (ah, i negracci!) che con le voci fanno tutto, melodia, armonia e ritmo. I MIDA hanno un buon successo, incidono per la Voce del Padrone, nel cui catalogo del 1939 (la guerra di Hitler e Mussolini non è ancora dichiarata) troviamo ben cinque dischi con titoli come Sweet Sue-Just you e Swing swing swing, il famoso brano di Louis Prima lanciato in America dalle Andrews Sisters. Ma il quartetto non supera l’esame-guerra, troppo esterofilo e poi perché – si immagina – nella Napoli liberata, swing e boogie vengono eseguiti direttamente e massicciamente financo dall’ultimo soldato americano. E’ la Napoli della ricerca di Zazà, che chissà chi s’è fumata, di «chi ha avuto ha avuto ha avuto/ chi ha dato ha dato ha dato/ scurdammoce ‘o passato» e della perfida e razzista Tammurriata nera.

Murolo emigra verso Capri, alla ricerca di una dimensione nuova e di un modo nuovo di affrontare la canzone napoletana. Il modo mediterraneo-arabo che farà la fortuna di Bruni e di tanti interpreti? O quello della canzone d’autore ottocentesca, elegante e salottiera, che ha fatto la fortuna dei grandi tenori? Lui sceglie la terza via: un modo sommesso, carezzevole, che dia importanza alla voce, se vogliamo alla maniera dei grandi crooner americani, come Crosby o Sinatra, e alla parola. Gli danno una mano, in questa ricerca, autori come Bonagura, e canzoni appunto come Scalinatella o Sciummo, che si muovono in un ambito di note contenuto. E’ una strada che lo porta al successo, sia alla radio, sia attraverso i dischi e nei primi festival della canzone napoletana, di cui vince l’edizione del 1959 con Sarrà chi sa. Appare anche sullo schermo in film come Tormento, Tre passi a Nord, I falsari. Poi l’incidente che lo mette, è il caso di dirlo, alle corde. Tornerà a cantare, ma con un’ombra che l’offusca e lo spinge a restare in disparte.

Ricordo di averlo incontrato nella sua casa all’inizio degli anni ’70, insieme con l’impresario Franco Fontana, per una serata ai Lunedì del Sistina. Andammo al Vomero ed era l’ora della cerimonia del tè. Combinammo. Nonostante i dubbi di lui, che non si era mai esibito con un recital nella Capitale, ma solo al fianco di altri personaggi, come Rascel. A pensarci oggi, Murolo aveva allora già sessant’anni. Erano i tempi della Nuova compagnia di canto popolare e si pensava a due protagonisti, la serata sarebbe stata divisa in due parti. Ma poi diventò una serata tutta sua, poiché la NCCP aveva altri impegni: fu una occasione sfortunata, con raucedine e raffreddore. Ma il pubblico gli decretò un trionfo. Nella prima parte, Murolo proponeva il tema di Come rideva Napoli (che fu poi anche una raccolta discografica), perché, diceva, citando il padre Ernesto, «come puo’ uno che vive a Napoli essere “chiagnuso”?». E snocciolava canzoni scollacciate come Lui lei e gli altri sei di Gill o Primma, seconda e terza; o classici come Dduje paravise o Chiove, senza dimenticare il genitore di Pusilleco addiruso. Poi veniva Napoletana, che si richiamava alla antologia discografica. E allora ecco il Canto delle lavandaie del Vomero, che De Simone aveva ripreso e ampliato nella Gatta Cenerentola, le villanelle, Michelamma’. Ma la gente aspettava Lo guarracino, il settecentesco canto che per essere cantato ha bisogno di virtuosismo mnemonico e canoro. Di quel canto aveva scritto Domenico Rea che «mai pescivendolo, per quanto abile, ha raggiunto nella sua spettacolosa mostra questo campionario ittiologico che diventa, alla sola indicazione dei nomi, un epico elenco di guerrieri arditi e nobili, degni di una guerra di Troia». E Murolo, alla fine, nonostante la raucedine che io sospettavo essere più psicosomatica che altro, vinse la sua personale guerra di Troia, donandosi ai fragorosi applausi del pubblico.

A sessant’anni cominciava la seconda giovinezza di Murolo e un nuovo, trionfale viaggio nella musica napoletana, durato trent’anni. Concerti, serate, nuovi dischi. E ciliegina finale, Fabrizio De André che gli chiede di cantare insieme con lui, in Piazza del Plebiscito a Napoli, la sua Don Raffae’, canzone tratta dal disco Le nuvole, che è la storia di una guardia carceraria che vede nel camorrista l’incarnazione del bene e della giustizia. Una canzone impegnativa, un po’ come Lo guarracino, con quelle rime di ventuno sillabe che rendono difficile riprendere fiato. Murolo accettò, credo con modestia, e si accostò – lui, personaggio che impersonificava la canzone napoletana – a quell’anarchico genovese che era Fabrizio e alla sua canzone senza darsi arie, tutt’altro. E intanto tutti a riconoscergli un ruolo di salvatore della patria, di esponente unico della tradizione, facendogli forse il torto di non considerare che anche lui, in gioventù, aveva amato più la musica americana che non le canzoni napoletane. Un figliol prodigo, insomma, con tanti colleghi che di quella tradizione si sentono depositari che saranno schiattati d’invidia ma che dovevano inchinarsi a tale interprete. L’ultimo disco di Murolo si intitola Ottantavoglia di cantare, con riferimento ai suoi ottanta anni, e vi hanno partecipato lo stesso De André, Mia Martini, Peppino di Capri, Enzo Gragnaniello, Toquinho, Lina Sastri, Arbore. Un omaggio al maestro, quel tipo di onori che probabilmente uno riceve toccandosi («Ma son proprio con un piede nella bara?») e magari con leggero fastidio («Siete voi che rendete omaggio a me o io che vi assicuro una bella pubblicità?»). Nel gennaio scorso, poi, il presidente della Regione Campania, Bassolino, e il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino sono andati a fargli gli auguri e a consegnargli la nomina a cavaliere di Gran Croce del presidente Ciampi, massima onoreficenza della Repubblica. Robe’, ma te li aspettavi tutti questi onori

L'Unità, 14.03.2003

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