Quello che
più mi interessa è mostrare al mondo che dietro a
una tazza di caffè ci sono milioni di famiglie che
lavorano, giorno dopo giorno, ora dopo ora. È
Sebastião Salgado a parlare, occhi chiarissimi e pause di
pensiero che rallentano la dizione del suo francese perfetto
(vive a Parigi da molti anni). Il fotografo brasiliano che ha
testimoniano il movimento dei Sem Terra, che combatte contro la
deforestazione del suo paese e ha illustrato al
pianeta intero le condizioni di esistenza dei cittadini
globalizzati loro malgrado (Workers), se ne sta quasi
rannicchiato davanti una parete dove spiccano le sue foto, in
bianco e nero. Un album che racconta la storia dei
coltivatori di caffè, con luci radenti che tagliano in due
l'inquadratura o che riempiono gli occhi rendendo evanescenti i
soggetti in cammino ai piedi di una foresta. Per testimoniare
questi speciali lavoratori intanto Salgado gira il mondo
(Brasile, India, Etiopia, Guatemala), cattura istanti sconosciuti
e frammenti di quotidianità per inserirli in un progetto
più grande - In principio - che firma come artista
mentre come committente c'è Illy, in omaggio ai paesi
produttori cui deve la sua materia prima.
Siamo a Parigi,
dentro la Chapelle de l'Humanité (sede del centro
culturale franco-brasiliano e cuore pulsante del Marais) ma siamo
anche in l'India grazie a quella serie di scatti, immagini
dall'atmosfera rarefatta, chiuse in un ordine pulito
e quasi geometrico che ricompone l'umanità e i suoi flussi
migratori in cornici liriche. Fuori dalla Chapelle, invece, la
città annaspa travolta da un violento temporale e si
respira una temperatura tropicale. Sebastião Salgado ha
una presenza magnetica, s'incanta a descrivere la luce che
incontra tra capanne di fango e tiene a specificare che ama la
fotografia perché è un linguaggio universale,
comprensibile a tutti, sia quando la macchina (una Leica che era
di sua moglie) s'inerpica tra i campi profughi dell'Africa oppure
corre lungo il Sertão brasiliano.
Per chi
conosce la tappa brasiliana di In principio si
nota qui una grande differenza: l'India le ha ispirato un modo
nuovo di comporre l'immagine?
La differenza che segna
le foto non è qualcosa che ho scelto io ma è
attinente alla realtà di questi due paesi. In Brasile gli
alberi sono in mezzo alle pianure, il paesaggio è aperto.
In India si lavora alla selezione dei chicchi all'ombra. Siamo in
presenza di un caffè che cresce sotto gli alberi, molto
protetto. La luce è racchiusa, ferma. C'è meno
natura selvaggia e ci sono più persone, l'attenzione è
posta tutta sul versante umano perché mentre
in Brasile il lavoro della pulitura dei chicchi è ormai
meccanizzato, in India è ancora fatto a mano e svolto
principalmente in interni. È dunque la realtà che
mi ha guidato. In dicembre partirò per l'Etiopia, so già
che lì dovrò abituarmi a un altro sguardo.
Lei
ha testimoniato le grandi migrazioni umane in Workers.
Pensa che la sedentarietà di un individuo sia uno stato
che ormai appartiene al passato?
Gli uomini e le donne
migrano non per piacere ma perché sono sono obbligati a
andare via. Il ritratto dei lavoratori del mondo globale è
molto semplice: sono gruppi di persone costrette a vivere in
totale assoggettamento ai valori della produttività e
dell'industria, vivono per permettere l'eliminazione di prodotti
o per crearne dei nuovi. Migrano in virtù degli equilibri
ma soprattutto degli squilibri provocati da questo processo
sociale. Si pensa spesso che i conflitti nascano per problemi
razziali o etnici ma non è così: la base di ogni
guerra è sempre economica, basti guardare a casi come il
Ruanda o il Burundi... In campo non è solo la divergenza
tra la popolazione ricca e quella esclusa da tale prosperità.
C'è qualcosa di più, è nella modalità
della produzione: da una parte, c'è una popolazione forte,
con un prodotto che ha sempre lo stesso prezzo mentre dall'altra,
ci sono coloro che dividono la torta in pezzi secondo i bisogni
dei primi. Tutto questo crea instabilità sociale. Allora
esplodono i problemi e si affaccia il diavolo etnico
ma l'origine del dramma è altrove. Ciò che vediamo
è solo una conseguenza. Anche la guerra in Jugoslavia ha
risposto alle stesse logiche, così come oggi l'Iraq. Non
siamo di fronte a nessuno scontro di civiltà. Le ragioni
sono economiche o finanziarie ma le popolazioni non le conoscono.
E vivono comunque i conflitti sulla loro pelle. Lavorano,
producono e poi vedono la loro casa distrutta, gli strumenti di
lavoro azzerati e non resta loro che la strada.
La sua
serie di fotografie Les enfants rappresenta un
omaggio ai bambini di tutto il mondo. Perché ha scelto
proprio loro?
I bambini e i vecchi mi hanno sempre
colpito. Qualcosa li accomuna ed è il non essere a
conoscenza di ciò che sta accadendo, di non poter reagire.
Da un lato, ci sono i vecchi che hanno già passato tutta
la loro vita e che aspettano il momento di riposarsi o di morire
in pace. A volte hanno condotto una esistenza disperata,
sconvolta da guerre. Dall'altro lato, ci sono invece i bambini
che non partecipano in alcun modo al disequilibrio della loro
famiglia né tantomeno alle perversioni del sistema. Chi
sta in mezzo, è in genere è in grado di comprendere
i processi che lo conducono a vivere un certo tipo di esistenza.
Vecchi e bambini sono degli emarginati, sono fuori gioco
nonostante rappresentino quasi la metà della popolazione
mondiale.
Cosa l'ha spinta a lasciare la sua carriera
di economista per dedicarsi alla fotografia?
È
come se avessi scoperto qualcosa che mi ha preso talmente che
alla fine è diventata una vera invasione della mia vita.
Non avevo nulla contro la mia professione. Ho iniziato a
fotografare e questo ha cambiato radicalmente il mio modo di
vivere.
Crede sia necessario mantenere una distanza dal
soggetto?
Non ho mai creduto, mentre fotografavo, che
bisognasse tenere le distanze dal soggetto. Piuttosto vanno
mantenute intatte le proprie emozioni e non allontanarsi mai dai
propri sentimenti. Non bisogna esagerare con l'emotività
perché si rischia di fare un lavoro inutile ma, al
contrario, se si è troppo razionali si rischia di essere
solo concettuali. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra testa,
ragione, istante e cuore. Una foto è un fatto soggettivo.
Si fotografa con l'ideologia, con quello che si sente, si ama, si
pensa.
Come procede il suo progetto di rimboschimento
nella Mata Atlantica?
Molto bene. Non ne abbiamo
ancora piantati un milione come da progetto ma siamo a
sessantamila, al traguardo arriveremo tra due o tre anni. Intanto
è stata costruita una scuola ambientale dove si lavora con
la comunità. Non si possono soltanto piantare gli alberi,
bisogna aiutare la gente a migliorare le condizioni di vita,
cambiare le modalità di produzione, proteggere la cultura.
Siamo riusciti a inaugurare un piccolo teatro e un cinema, grazie
anche agli interessamenti di amministrazioni come quella di Parma
e di Valencia. Così si può trasmettere la memoria,
sviluppare dibattiti, educare nel senso migliore del termine.
Intervista di Arianna Di Genova
IL MANIFESTO 23/10/2004
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