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Bellezza, poesia, intelligenza. Le nostre armi contro la furia |
Intelligenza,
bellezza, amore, poesia sono i valori da contrapporre alle brutture
del mondo, sono le armi che abbiamo a disposizione. A colloquio
con Salman Rushdie, a Roma per presentare il suo nuovo romanzo,
"Furia", cominciamo a parlare della cura invece che
della malattia. La cura ai mali dellOccidente e degli umani
dOccidente. Dice lo scrittore: «Lintelligenza è
molto importante: pensare il mondo in modo autonomo e libero ci
consente di vivere il mondo e nel mondo. Così anche lamore
e la bellezza». Intelligenza, bellezza, amore, poesia sono
infatti disseminate nel nuovo romanzo di Salman Rushdie. Parole
femminili per placare paura e rabbia. Per placare la "Furia",
per lappunto. La furia che strazia il cuore di Malik Solanka,
che aleggia sopra New York e tutto lOccidente, che invade le
tre donne della storia, che ha invaso gli animi dei rivoluzionari di
Blefuscu. La stessa furia che ha rapito i critici letterari che hanno
visto nel nuovo romanzo di Rushdie, scritto prima dell11
settembre, una profetica visione dellattentato alle torri di
New York. Non cè nulla di questo nel libro,
naturalmente. Se non una fortunata (?) coincidenza temporale. Se non
unanalisi dei mali dellOccidente simile alle numerose
analisi che, dopo lattentato terroristico, hanno animato
giornali e instant-book. Non cè nulla di profetico in
"Furia". «Mi sono bastati i miei rapporti con i
profeti per averne abbastanza di loro, non voglio rivendicare di
essere io stesso un profeta», commenta con ironia Rushdie
riferendosi ai profeti islamici che lo hanno condannato a morte. Ora
può riderne, dice, perché dopo essersi liberato dalla
paura è riuscito a liberarsi anche dalla gabbia della
«sicurezza»: «New York è una città
dove convivono immigrati da fuori e dentro lAmerica, è
una città unica perché la sua cultura è stata
creata collettivamente. Non sono abituato a sentirmi uguale agli
altri: a New York, finalmente, mi sento normale come tutti gli altri.
O può essere che siamo tutti anormali nel medesimo modo. Ma è
lo stesso».
"Furia" è una commedia
sentimentale, amara e divertente (e anche grottesca) sulla condizione
delluomo moderno, è una storia damore -
quellamore che apre il cuore e gli occhi e ci porta a cambiare
- è unapologia della bellezza e dellincontro e
della compenetrazione («Mescolate le razze tutte insieme e
avrete la gente più bella del mondo»). È un
omaggio alle parole, al potere delle parole che «possono
muovere le montagne e cambiare il mondo», alla forza del
racconto e al potere delle storie. La nostra storia siamo noi, dice
Solanka, che ritrova la sua strada e se stesso proprio riuscendo a
ritrovare il filo della sua storia, sapendola raccontare a chi ama.
Parole di vita e nutrimento dei nostri ideali. Parole come
«leggerezza», «rapidità», «esattezza»,
«visibilità», «molteplicità»,
«coerenza». Cè un omaggio a Calvino, tra le
pieghe del libro, «uno scrittore che ho amato molto e che è
stato anche mio amico - racconta Rushdie -. Le sue parole, le parole
delle Lezioni americane sono valori, li ho citati come tali, perché
sono espressioni incredibilmente precise di tutto ciò di cui
abbiamo bisogno». Sempre che vengano interpretate nella maniera
«giusta»: adottando il multiple-choise, la definizione di
«leggerezza» può essere «trattare in modo
frivolo ciò che è serio», invece che «fare
con leggerezza quello che in realtà è un pesante
dovere»; «molteplicità» può essere
sia «apertura mentale» che «doppiezza»;
coerenza «affidabilità» o «ossessività».
«Sì, nel romanzo ho inserito le parole di Calvino con
una variazione sul tema - dice Rushdie ridendo -. Forse lui è
stato uno scrittore più ottimista di me». "Furia"
è anche un romanzo damore per un bambino, per la sua
poesia, il suo candore, la sua assenza totale di paura dei
sentimenti. Un bambino che rimane sullo sfondo, appeso al filo del
telefono dal quale lancia ripetute e imperfette richieste di
presenza, di vicinanza, di gesti di risanamento. Ed è anche al
suo «nuovo» figlio che pensa Salman Rushdie, quando gli
chiediamo se non ha ancora voglia di scrivere per i piccoli, come ha
fatto solo una volta con Harun e il mare delle storie. Sorpresa! Cè
una fiaba in gestazione: «Probabilmente scriverò un
libro per mio figlio, che ha cinque anni ed è molto
interessato ai libri. Quando ho scritto Harun era stato pensato per
bambini un po più grandi. Ma mio figlio è
impaziente e ho anche unidea». Segretissima. Scrivere
fiabe è un processo delicato e complicato, molto più
complicato di qualsiasi altra forma letteraria, dice. Per ora,
annuncia solo luscita negli Usa di una raccolta di saggi, editi
e inediti, Step across this line.
Il nuovo romanzo di Salman
Rushdie non rivendica nessuna profezia, insomma. È piuttosto
il ritratto lucido, spietato e pieno damore che lautore
traccia di New York e dellimpero Americano. Una lucidità
che gli ha permesso di capire che era nellaria un cambiamento,
e certo - spiega lo scrittore - «non pensavo minimamente a un
cambiamento imposto da un atto così cruento». Anche
Rushdie, come il protagonista della storia, Malik Solanka, è
stato sedotto dallo splendore della metropoli, anche Rushdie, come
Solanka, non ha permesso che questo splendore lo accecasse del tutto.
«Dietro la facciata di questetà delloro -
pensa il protagonista di "Furia" - di questo tempo di
abbondanza, le contraddizioni e limpoverimento delluomo
occidentale - o dellio in America, diciamo - erano sempre più
vasti e profondi». «L11 settembre ha rappresentato
una trasformazione incredibile e un libro che, a suo tempo, ha
preannunciato che ci sarebbe stato un cambiamento, con il senno di
poi potrebbe essere visto come profetico - dice Rushdie -. Ma un
evento come quello dell11 settembre era inimmaginabile. La New
York che descrivo nel libro era una città che stava vivendo un
momento assolutamente eccezionale, di grande ricchezza e grandi
possibilità, stava attraversando unincredibile età
delloro. E siccome, di norma, le età delloro non
durano a lungo, mi ero riproposto di cogliere, descrivere, catturare
quellatmosfera. Avevo l istinto fortissimo di fissare
sulla pagina questo particolare momento che stava vivendo New York
con grande urgenza. Avevo questa spinta a farlo subito, senza
indugiare».
Solanka scappa a New York perché si è
perso e per perdersi, vuole essere annullato, vuole essere ingoiato
dallAmerica. LAmerica come Kronos che mangia i suoi
figli, tutti, che siano americani o immigrati da tutto il mondo.
«Mangiami America!», grida Malik Solanka, colto e celebre
professore universitario con una passione coatta per le bambole,
passione che lo porterà fuori delluniversità e
sugli altari dello show business. Kronos sarà una delle sue
ultime creazioni, bambola che programma bambole.
Lei ha
deciso di vivere a New York, la stessa città co-protagonista
di «Furia». Quanto cè di autobiografico nel
suo libro?
A differenza del protagonista del mio libro,
sono andato in America perché avevo un libro da scrivere, per
cercare di assorbire il più possibile, capire e trasferire
questo materiale nella storia. Nel romanzo gioco con gli elementi
autobiografici, ma il carattere del protagonista è molto
diverso dal mio. Solanka è un personaggio tormentato, in fuga
da se stesso. Lui va in America per scappare, io ero mosso da un
desiderio completamente diverso, andavo verso qualcosa, non fuggivo.
E come in Solanka, anche in Rushdie New York suscita
sentimenti ambivalenti?
Certamente sì: celebro i
lati positivi di New York e ho nei suoi confronti un atteggiamento
critico. Ho una doppia visione di New York, ma la hanno tutti quelli
che vivono in una grande città. Per quello che riguarda il
personaggio Solanka, ho cercato di fare in modo che desse voce a
tutte le critiche mosse nei confronti dellAmerica. Il suo è
un punto di vista negativo. Ma, al tempo stesso, Solanka è
circondato da altri personaggi che vedono New York come una città
di gioia, di piacere. La visione scura di Solanka insieme a quella
chiara degli altri personaggi rendono una riflessione complessa sia
su New York che sullOccidente. Nello stesso personaggio di
Solanka, peraltro, ritroviamo lambivalenza di cui abbiamo
parlato: è vero che lui odia New York, ma è anche vero
che proprio verso New York è andato per ritrovarsi»
Nel
libro si parla di furia, anche di quella che prende chi rimane
tagliato fuori dallo splendore occidentale. Cosa pensa della
globalizzazione?
In qualche parte del libro Solanka
riflette che persino gli antiamericani amano lAmerica,
riconoscono nellAmerica una preminenza. E sicuramente è
vero che gli Usa oggi dominano la nostra vita quotidiana, i nostri
pensieri e il futuro degli altri paesi. Si tratta di una dominazione
particolare, un po come se fosse un impero senza soldati.
LAmerica esercita uninfluenza enorme ed è un tema,
un argomento, che non possiamo ignorare, è entrata in modo
inesorabile e prepotente nella nostra vita. Provengo da un paese che
appartiene al Terzo Mondo e in virtù delle mie radici ho nei
confronti dellAmerica due atteggiamenti distinti. Abbiamo
lAmerica, che è tante cose molto diverse tra loro, e
abbiamo il potere che lAmerica esercita sul mondo. È
bello vivere a New York, cosa ben diversa è sperimentare il
potere dellAmerica vivendo in un paese povero. Credo che il
processo della globalizzazione sia ormai irreversibile ma, come ha
detto Amartya Sen, il problema non è tanto la globalizzazione
ma come le risorse disponibili siano distribuite in modo così
iniquo.
Lei ha conosciuto la paura di essere braccato. Si
riconosce nella paura americana dopo gli attentati?
New
York è stata molto provata, ha subito un pesante shock, la
fiducia e la sicurezza sono state infrante. Questo ha avuto effetti
devastanti perché la città aveva perso, con esse, la
propria identità. Ma è anche vero che ora la fiducia è
stata recuperata, in grandissima parte i newyorchesi sono riusciti a
superare la paura. E questa è stata anche la mia esperienza
personale: a forza di convivere con una minaccia, succede che
riusciamo a convivere con la paura, continui a vivere la tua vita
nonostante il pericolo, continui a scrivere, a viaggiare, a dire ciò
che pensi. Anche perché ti accorgi che se cedi le armi, ti
abbandoni alla paura, sei costretto allinazione. E tornando a
New York, sarebbe stato tragico che lattacco terroristico a una
società libera potesse avere come conseguenza quella di
rendere questa società non più libera. Ma cè
un altro grande problema da risolvere. Ora ci troviamo a fare i conti
con lintrusione massiccia di sistemi di sicurezza, una
sicurezza imposta, onnipotente e onnipresente. Accetto di togliermi
le scarpe allaeroporto, non accetto che esistano tribunali
senza giuria. Dobbiamo stare molto attenti a non rinunciare alla
nostra libertà in nome della libertà.
Continuando
a parlare di paura, molto forte è quella che deriva dalla
guerra in Medio Oriente. Quale furia le fa più paura, quella
del kamikaze o quella di Sharon?
Entrambe le parti hanno
le mani insanguinate, ma se devo schierarmi, penso che lingiustizia
patita dai palestinesi sia più grande. Ma condanno i kamikaze.
Un terrorista come Osama bin Laden non ha reso nessun servigio alla
Palestina. E i kamikaze provocano un effetto deumanizzante, mandano
un messaggio di imbarbarimento, di svalutazione del valore della vita
umana. Ho sempre creduto nella possibilità di una soluzione al
conflitto: la posta in gioco è la sopravvivenza di una
nazione, Israele, e la possibilità di nascita di unaltra
nazione, lo stato palestinese. In questottica laica il
conflitto avrebbe maggiori possibilità di essere risolto.
Sempre che ci sia la volontà di farlo, cosa che non sembra
esistere oggi.
Intervista di Stefania Scateni L'UNITA' 12/04/2002
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