Che Guevara, il
nonnino. Così lo vedeva sua nipotina, che ovviamente non
lo conobbe mai. Eppure, per lei era il mio abuelito,
il nonnino. È così che comincia la fiction dei
lettori dellUnità sul Che, diretta da Gabriele
Salvatores. Ci spieghiamo: abbiamo cercato di immaginare chi
potesse essere il nostro regista, quello capace di confrontarsi
con limmensità del mito del Che, con la sua icona ma
anche con la sua umanità, con le conquiste e con le
contraddizioni della rivoluzione. Et voilà: è
Salvatores, il cantore della fuga, degli antieroi, nonché
premio Oscar (il che non guasta).
Lui, molto
simpaticamente, è stato al gioco. Una piccola
premessa, dice subito il regista di Mediterraneo. Non
solo i lettori sono stati stimolati dallesasperazione per
le fiction religiose, ma emerge anche unindicazione
che a me pare bella e importante: quelli votati sono tutti
personaggi che hanno espresso una forte tensione utopica. Mi fa
pensare che cè in giro un sano bisogno di
cambiamento, di riprendersi il respiro ampio dellutopia.
E
così arriviamo al nostro Ernesto Che
Guevara...
Esatto.
Ma tanto per cominciare è importante che la fiction che
vogliamo fare eviti lestetica della serialità, visto
che - come aveva preannunciato Pasolini - la televisione fa
sembrare seriale la stessa vita, abbassa i desideri, gioca sulla
pigrizia dello spettatore, punta ad abbassare il gusto. Ecco,
cercherei di fare una fiction bella, bella da vedere, una fiction
sul Che che susciti il desiderio... il desiderio è tutto
in questa storia.
Raccontaci
la prima inquadratura...
Cè
un episodio che mi è capitato e che potrebbe essere un
bellinizio per la nostra fiction: ero a Cuba, per delle
lezioni sul cinema alla scuola di Gabriel Garcia Marquez, eravamo
a casa a preparare degli spaghetti per Fidel Castro. Castro si
portò dietro la figlia del Che e la sua nipotina. Si
parlava del più e del meno, la bambina sembrava non
ascoltare. Ad un certo punto qualcuno nomina il Che. Senza
nemmeno alzare la testa, la bambina dice: Il mio abuelito,
il mio nonnino. Ecco, mai avrei pensato di sentire chiamare il
Che il mio nonnino. La sua immagine per tutti noi è
sempre quella di un giovane forte e rivoluzionario, non è
possibile pensarlo come nonnino. Partirei da qui per
la fiction, e dai racconti della figlia su quelluomo forte
che tornava a casa la sera tardi e che la svegliava: solo per
tenerla in braccia per qualche minuto. Partirei dal mio
abuelito. Dal fatto che se fosse invecchiato, se la sua
vita non fosse stata tagliata a metà, sarebbe diventato
nonno. Dalla sua umanità, al di là del mito e del
santino che altrimenti si rischia di farne.
Chissà
che in un certo senso il mezzo televisivo non sia più
adatto di quello cinematografico...
Beh,
in effetti al cinema è rischiosa una storia come quella
del Che - dagli studi di medicina fino alla fine in Bolivia
passando dal viaggio in Argentina in moto e passando, ovviamente,
dalla rivoluzione - perché è complicato comprimere
una vita così in scarse due ore. Forse la fiction ti offre
i tempi giusti per una biografia così complicata.
Chi
pensi possa interpretare il Che?
Eviterei
la trappola della somiglianza fisica. Uno che mi piacerebbe
molto, ma forse è un po troppo vecchio, è lo
spagnolo Javier Bardem. Altrimenti cercherei qualcuno di non
conosciuto - e questa, penso, è una cosa che al Che
sarebbe piaciuta, dare spazio a chi è meno conosciuto -
però lo vorrei argentino. Limportante comunque è
trovare una chiave, unaderenza forte in termini
psicologici... dopo un po laspetto fisico te lo
dimentichi.
Poi
cè il problema dellicona Che e del
come trasportarla su un mezzo popolare come la tv...
Pensa
che Diego Abatantuono, per pruomuovere il suo nuovo film (il
sequel di Eccezzziunale veramente) ha fatto fare delle magliette
con la scritta Dieghevara, con il suo viso stampata
alla maniera di quel celebre ritratto del Che. Funziona. Ti dà
lidea della forza formidabile di quellicona. In
quanto alla necessità di realizzare un racconto popolare,
beh, bisogna vedere cosa sintende per popolare.
Non credo che popolare voglia dire banale. Larte popolare
nella sua storia ha avuto spesso delle espressioni complicate,
non facili da decifrare. Lartista deve stare almeno un
passo davanti a chi lo segue... daltronde, se ami le
persone che ti seguono ne hai anche fiducia, no? Molti dicono che
è semplice ciò che piace al pubblico: questa,
oltreché una sciocchezza, è un pensiero politico,
un modo per lasciare che i pensieri rimangano addormentati.
Tra
gli altri nomi usciti dal gioco-sondaggio dei lettori dellUnità,
qual è quello che ti è più affine?
I
fratelli Marx. Davvero.
Magari sarebbe più utile la storia di Giordano Bruno o
quella di Marx - laltro - ma anche loro hanno saputo
vedere il mondo con occhi nuovi. Vedi, la loro comicità
era irriverente, irrazionale, non logica. Sarebbe una cosa
grandissima, secondo me, fare una serie sui fratelli Marx.
Sarebbe fantastico. Un viaggio, dal bianco e nero al colore,
attraverso una forma di comicità destabilizzante che non
ride solo degli stereotipi - di norma si ride solo delle cose di
cui abbiamo paura, per esorcizzarle, dei gay, dei carabinieri,
delle donne - mentre la comicità dei Marx era basata
sullassurdo, sullimprevedibilità del pensiero.
Credo che una fiction su di loro avrebbe successo. Ah, sarebbe
straordinario mettere insieme un gruppo di attori comici
adatti... con quelle maschere! E poi, pensa le musiche,
lambiente. Anzi, vedrai, che qualcuno ci penserà a
portarli sullo schermo...
Intervista di Roberto
Brunelli LUNITA 29/11/2005
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