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CINEMA

“Private, il mio cielo in una stanza”

Te la racconta così. Tanto per darti l’idea delle aspettative. Non sapeva nemmeno dell’iscrizione del film alla rosa dei papabili, figurarsi dei cespugli polemici che hanno aggrovigliato nei giorni della vigilia le scelte della commissione, in odor di sospetto, secondo alcuni, per la decisiva compresenza in giuria dei produttori delle pellicole da selezionare. Era all’estero per lavoro, al punto che quando il verdetto ha iniziato a rimbalzare, da Roma lo cercavano tutti, ma nessuno lo trovava. Alla fine Saverio Costanzo è rientrato e lì si è gustato la sorpresa: staccando il gruppone di concorrenti, sarà il suo Private a rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar.
Ti giuro che è andata proprio così”, racconta il regista, “era l’ultima cosa che mi sarei aspettato, perché mai avrei pensato che un film così piccolo potesse aspirare a tanto. Non ho avuto nemmeno il tempo di riaggiornarmi sulle controversie delle scorse settimane, anche se, dall’idea che mi sono fatto a posteriori, posso dedurre che Private abbia avuto la fortuna di rappresentare una via d’uscita da quell’impasse”.
Al di là della polemica sui meccanismi di selezione, la scelta di Private sembra lanciare un segnale significativo su come si possa lavorare anche a budget ridotti nella direzione di un cinema coraggioso che va dritto nel ventre dell’attualità. Qui, addirittura è il cuore dei problemi a livello mondiale, il conflitto israeliano-palestinese.
Di sicuro, Private è stato un film che ha centrato il suo fulcro più su un’idea che nella sua realizzazione stilistica. È una storia che viveva d’attualità per cui ho sentito la necessità di doverla raccontare in quel preciso momento. Ovvio che quando si inseguono sfide di questo tipo, si possono correre rischi enormi, perché tutto può cambiare da un momento all’altro. Così, magari stai meno a guardare la forma, ti concentri di più sul contenuto, ma il vero motore rimane la tua “urgenza” narrativa. Una spinta che ti viene anche, come nel mio caso, dall’incontro con attori palestinesi e israeliani che si mostrano subito disponibili a lavorare in un progetto così “pericoloso”. Insomma, un film di pancia, più che un film pensato o ragionato, tanto che alla fine quella sua ruvidezza formale non è altro che il corrispettivo del fluido emotivo che ne sta alla base.


Tra i registi della tua generazione sembra essere tornata una certa fame d’attualità. Pochi giorni fa, ad Annecy è stato premiato Saimir, il film di Munzi che scandaglia i territori dell’immigrazione albanese nel nostro paese. Un bisogno etico e diffuso di tornare alla realtà per raccontare storie che la perforino, la critichino o più semplicemente la significhino.


L’accostamento con Francesco Munzi mi fa piacere, perché ho apprezzato il suo film. E forse la cosa che accomuna i nostri lavori e quelli di altri giovani registi, sta proprio in quella passione del racconto e dell’osservazione che non cerca i sostegni preconfezionati di un’ideologia. Non c’è alle spalle una volontà di schierarsi per giudicare il mondo attraverso opinioni preesistenti, ma il desiderio di mettersi in una posizione d’ascolto che ti permetta uno studio più “trasparente”. Soprattutto quando ti accosti a realtà che non ti appartengono direttamente come il mondo albanese per Munzi o il “mio” Medio Oriente. Se avessi avuto un’opinione già blindata sulla questione israelo-palestinese, avrei mortificato l’intero lavoro, precludendomi strade che invece hanno preso corpo proprio durante le riprese.


Un metodo e una sensibilità che non sono così tanto distanti da quelli del documentario...


Sì, anche se il documentario, per come lo intendo io, ha un altro modo di approcciare l’oggetto audiovisivo. Richiede un’integrità e un rigore addirittura superiori a quelli di un film che invece rimane qualcosa di più personale e “partecipato”.


Ma questo livello di “partecipazione” è trasferibile sia all’interno di realtà lontane e complesse che in contesti più ravvicinati e familiari?


Guarda, tutto dipende da quanto a fondo vuoi e riesci ad andare. Finora io ho sempre lavorato sui luoghi. Soprattutto su quei luoghi chiusi da quattro pareti che hanno un aspetto quando entri, ma che si trasformano completamente non appena inizi a percepirli più in profondità. Perché subito diventano degli universi a se stanti, molteplici e centripeti allo stesso tempo. E può capitare per un’abitazione palestinese, per un ospedale, ma anche per il bar sotto casa che non hai mai osservato con grande attenzione.


Dopo la vittoria al Festival di Locarno dello scorso anno dicevi che non avresti cambiato rotta: film a basso costo, sobri e incentrati in piccoli spazi. Poi c’è stato ancora il David di Donatello come regista esordiente e infine questa chiamata per gli Oscar. Sicuro di tener botta di fronte ai richiami delle nuove sirene?


Ovviamente questi graditi riconoscimenti nascondono anche dei tranelli, per cui preferisco rimanere prudente, riaffermare la mia idea di austerità, mantenendo un metodo di lavoro che non vuole avere più di quanto sia strettamente necessario. Altrimenti il rischio è di perdere contatto con se stessi e di allontanarsi da quelle esigenze primarie che stanno all’origine del proprio lavoro.


Ma c’è anche una volontà estetica dietro queste scelte di austerità produttiva?


Dipende tutto da che tipo di storia vuoi raccontare. Per farti un esempio: i film di Tarantino costano milioni di dollari, ma sono soldi spesi bene perché supportano una vera e propria esplosione immaginifica. Io invece rincorrerei un sogno inutile se mi cacciassi in testa l’idea di fare qualcosa di simile, perché non ho la sua immaginazione e non vedo le cose che vede lui. Può sembrare paradossale, ma avere soldi in più a livello produttivo può rischiare di portarti lontano dalla verità della tua storia. Al massimo, il vero lusso è potersi permettere un periodo più lungo di ricerca per la gestazione del progetto. È il tempo più che i soldi il valore necessario per fare i film come li intendo io.


Intervista di Lorenzo Buccella – L’UNITA’ – 09/10/2005

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