Howard
Hughes dalla metà degli anni 20 alla fine dei 40, per un
ricercatissimo affresco sulla parabola del grande capitalismo
americano - la golden era della rivoluzione industriale e quella
di Hollywood, e i semi del loro collasso: il film (tra poco nelle
sale americane, il 17 in quelle italiane, è The
Aviator), di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio nella
parte di uno dei grandi misteri della storia Usa - il petroliere,
aviatore, attivista politico, regista/produttore Howard Hughes -
Cate Blanchett in quella di Katharine Hepburn, Kate Backinsale in
quella di Ava Gardner. Ne abbiamo parlato con Martin Scorsese a
Los Angeles.
È il personaggio o il milieu della
Hollywood anni `30-'40 che la hanno convinta ?
Anche
se avessimo trattato solo il suo rapporto con l'aeronautica,
avrei fatto il film, perché mi attirava la tragicità
delle debolezze di Hughes, il modo in cui le ha spesso superate
ma che, alla fine, lo hanno prevaricato. Certo, io stesso non
sono esente da paranoie - so per esempio cosa può
succederti in testa quando non dormi per 40 ore di seguito come
faceva lui - ma non a livello di quel pover uomo.
Sono
stati Leonardo Di Caprio e Michael Mann a chiamarla...
Venendo
da Gangs of New York, che io stesso ho generato e ho
impiegato tanti anni a terminare, desideravo un film che mi
arrivasse dall'esterno e in cui avrei potuto imparare qualcosa di
me stesso come regista. Mi mandarono la sceneggiatura senza dirmi
chi lo aveva scritto o che ci fosse di mezzo Leo. Mi sono subito
innamorato dell'idea di fare qualcosa su un tycoon americano,
e sulla debolezza fatale che sta nell'idea stessa del tycoon
americano - qualcuno che può apparentemente risolvere ogni
problema perché ha i soldi per farlo. Io credo che
l'orgoglio, l'ego di un tycoon come Hughes rifletta in
parte lo spirito di ciò che ha reso possibile questo paese
straordinario - la conquista del West , le guerre
ispano-americana e messicane. Mi sembra che la nozione di
`prendere prendere e prendere' sia ben cristallizzata nel periodo
in cui è ambientato il film. C'è una darkness,
un'oscurità, intrinseca in ogni cultura che non può
smettere di `prendere', un'avidità dalla quale non puoi
mai tornare indietro. La parabola di Hughes riflette tutto
questo.
Si è parlato spesso di film su Howard
Hughes. Alcuni ne sono stati già ispirati, come Melvin
and Howard di Demme.
Una delle ragioni per cui me
ne ero stato alla larga è proprio che in torno a Hughes ci
sono così tante storie possibili - molto mistero, infinite
speculazioni. È morto nel 1976, io sono cresciuto
conoscendolo solo come un eccentrico, e per il periodo di Las
Vegas e del Desert Inn. I due film di cui mi aveva tanto parlato
mio padre, Scarface e Hell's Angels, allora erano
considerati maledetti, virtualmente invisibili. Sapevo che Warren
Beatty, aveva in testa di farci un film, così anche
Spielberg, e Brian De Palma. Ero interessato alla sua paranoia,
ai suoi memo, ma ero anche sicuro che prima o poi qualcun
altro mi avrebbe anticipato. Quando ho visto che la sceneggiatura
di John Logan apriva su di lui che dirige Hell's Angels mi
si sono drizzate le antenne: c'è qualcosa di
autenticamente forte, visionario, nel giovane Howard Hughes. È
molto interessante quello che viene lasciato fuori dallo script
del film, riflette una certa essenza della verità sulla
vita di Hughes - sul suo rapporto con l'aviazione, il business,
il cinema... Prendiamo, per esempio, le donne. Che fare con un
uomo che ha avuto tutte le donne possibili? Logan ne ha scelta
una sola, Katharine Hepburn, che è stata realmente
importante, perché lei e Hughes erano due persone molto
simili... Quando il rapporto tra loro è finito, ha
provocato una vera rottura in Hughes, che ha poi cercato di
sposare Ginger Rogers; ma lo ha lasciato anche lei. Lui `creava'
una donna, la sua donna ideale, in una ragazzina di 15 anni. È
un'immagine chiave nel film. Era importante per me cogliere lo
spirito di Hughes e del suo tempo - la verità
dell'emozione quando ha protetto Hepburn dai giornali
scandalistici che volevano esporre la sua relazione con Spencer
Tracy, piuttosto che la transazione finanziaria con la quale lui
ha acquistato per lei i diritti di Scandalo a
Philadelphia.
Quanto era importante per lei una
certa somiglianza fisica degli attori ai personaggi?
Un
margine ci deve essere. Dalle fotografie di Hughes giovane, per
esempio, risultava un'innegabile somiglianza con Leo: alto,
longilineo, i capelli pettinati indietro. Certo, Leo è
dovuto `crescere' nel personaggio. Non dico che Blanchett sembri
Hepburn ma, a suo modo, ne ha un po' assorbito la personalità.
Gwen Stefani l'ho vista per caso su una copertina all'edicola -
Gwen diventa bionda!- e mi sembrava proprio Jean Harlow.
Beckinsale è stata piuttosto eccezionale. Prima
dell'audizione le ho suggerito di guardare Mogambo, mi
sembrava che il suo rapporto con Huges potesse essere un po' come
quello tra lei e Clark Gable nel film.
Cosa pensa di
Hughes come filmmaker?
Il cinema hollywoodiano è
iniziato come un cinema di produttori, gente come Louis B. Meyer.
Mandavano avanti la fabbrica ed era tutto a loro disposizione.
Non che i registi non fossero importanti, ma erano i produttori -
almeno quelli veramente grandi - a condurre le regole del gioco.
Che ti piacciano o no i loro film, per esempio quelli di
Selznick, sono fatti molto bene. Io vedo un po' Hughes in quella
vena, un produttore indipendente con tutti i soldi del mondo, che
quindi minacciava il sistema, e in più modi: per esempio
forzando i limiti consentiti in fatto di violenza e morale, con
Scarface e Il mio corpo ti scalderà. Hughes
era una sorta di fuori legge. Penso che Hell's Angels sia
veramente straordinario - sequenze aeree del genere non si
potranno mai più realizzare. E non dimentichiamo Ali,
di William Wellman, il film che Hughes si era messo in mente di
superare! Welman aveva volato con la squadriglia Lafayette
durante la guerra. Erano tipi straordinari. Ho fatto vedere a Leo
sia Ali che Nemico pubblico, un altro Wellman, e il
mio gangster film favorito. E gli ho detto: questi sono i due
film che tu, in quanto Hughes, devi superare.
Intervista
di Giulia D'Angnolo Vallan IL MANIFESTO 05/12/2004
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