A
cinque anni dalla scomparsa dello scrittore il ricordo del
carabiniere che ispirò i "Racconti del
maresciallo" Salvatore Careddu racconta la storia di
un'amicizia nata sulle alture di Tellaro
Quando
nel 1956, settimo di otto figli, partii da Olbia su un traghetto
per arruolarmi nei Carabinieri, avevo con me una semplice valigia
di cartone, come tanti emigranti, tanti altri lavoratori che
salivano al Nord incontro alla vita con la speranza nel cuore. Io
sarei diventato un operaio della Legge. Nel 1971, nominato
maresciallo, comandavo la stazione di Sesta Godano (La Spezia),
dove ero stato trasferito nel maggio del 1969. Lì, un
giorno conobbi Mario Soldati.
Lo
scrittore abitava a Tellaro, una frazione di Lerici, abbarbicata
sulla roccia, divenuta la sua stabile dimora. Lui la descrisse
così: "la calata è già un'ombra, in una
trasparenza azzurrina. Le facciate delle case hanno smalti
sommessi e preziosi, sono strisce grigie, avorio, paglierine,
rosa, celesti e tutte qua e là irregolarmente tempestate
dai rettangoli smeraldini delle persiane. Le case lunghissime,
altissime, strettissime (larghe ciascuna non più di tre o
quattro metri) e così diverse nei colori, così
separate, così individuali, sono stipate l'una contro
l'altra e saldamente unite e cementate insieme, quasi a ricordare
qualche formazione naturale, qualche bizzarra formazione rocciosa
che fu opera di secolari depositi e filtraggi: l'immagine
perfetta di una società che fu opera di secolari depositi
e filtraggi: l'immagine perfetta di una società fondata in
eguale misura mediante un riuscito compromesso sulla forza civile
dell'associazione e sul rispetto dell'individuo". Ma
quella volta era salito in Val di Vara alla ricerca di nuova
ispirazione, di nuovi personaggi dai quali prese lo spunto per un
racconto, uno dei tanti, uno dei più belli, che apparve
sulla terza pagina del "Corriere della Sera" del
21.07.1981 con il titolo "Il vino di Montale".
Attraversammo il torrente Gottero. Il paesaggio cambia in una
alternanza meravigliosa di piccole valli, da una parte e
dall'altra del Vara. E piccoli poggi a forma di piramide, dagli
spigoli arrotondati ed addolciti che come zampe di gallina si
allargano verso il fondo. Sono propaggini interamente terrazzate
e coltivate a vigna. Qua e là sui poggi minori spiccano
chiesette, baracche bianche e rosse. Le colline più
distanti verso i cinquecento o seicento metri appaiono coronate
di neri lecci. Conobbi Soldati tramite un comune amico, Mario
Fiori. Nacque così un'amicizia destinata a durare nel
tempo, fatta di pomeriggi che non conoscevano lo scorrere delle
ore, di conversazioni attorno ad una bottiglia di vino bianco
fresco di Montale, con due bicchieri sempre pronti. Fu così
che presero corpo "I nuovi racconti del Maresciallo".
Così, nella fantasia dello scrittore, assunsi le sembianze
di un carabiniere, un po' filosofo, un po' disincantato, un po'
curatore di anime e confessore, un po' detective, una via di
mezzo tra Maigret e Freud. Nei racconti il mio amico
intrepretò ancora una volta, da par suo, la realtà
della provincia italiana, quella che è fatta di gente che
lavora, impastata di saggezza popolare e di bontà che ha
bisogno di uomini forti su cui contare. E un maresciallo in un
piccolo centro finisce per diventare parroco e sindaco al tempo
stesso. Deve capire la gente e farsi capire. Mai reprimere,
educare alla legge ma con una buona parola, che detta da un uomo
in divisa è temuta e rispettata al tempo stesso.
Conoscendo le persone, avevo messo in pratica questa filosofia di
vita, anche se non l'avevo studiata su trattati. Ciò
che apprezzavo in Soldati era la sua intuizione, la bontà
del suo cuore che emergeva al di fuori della ruvida scorza
protettiva. Soldati è stato un grande della letteratura
del '900, un vero regista della penna, ed io in venticinque anni
ho imparato di più conversando con lui che se avessi
frequentato l'Università. Avevo letto i suoi libri e
visto ed apprezzato durante l'adolescenza e la gioventù
anche i suoi film. Sapevo che Mario Soldati era nato a Torino nel
1906, educato in un collegio di Gesuiti, aveva studiato Lettere
all'ateneo della sua città d'origine. Autore di tante
opere, ammiravo il suo modo di narrare estroso, incalzante,
capace di convertire il dato più realistico in un evento
straordinario. I suoi film erano pervasi da autentica poesia, da
"Piccolo mondo antico" a "Malombra" alla
"Provinciale". Non è facile analizzare i
sentimenti che uniscono due persone. Prendo a prestito una sua
espressione, tratta da il "Vero Silvestri"; li vi si
parla dell'amicizia come la "forma più alta
dell'amore". Riusciva sempre a mettermi a mio agio. Il
suo esprimersi era semplice, il suo conversare lineare. Faceva
tante domande ma soprattuto lasciava spazio alle risposte senza
interrompere. Con il passare dei giorni ed il ripetersi dei
nostri incontri, il mio impaccio svaniva di fronte alla sua
semplicità e gradualmente mi sentivo me stesso senza
titubanze. Fin dal nostro primo incontro prendeva appunti di
tutto, annotava ogni particolare su un taccuino. Mi invitò
ad andare a trovarlo a Tellaro, io lo pregai di tornare a Sesta
Godano. Mantenemmo le promesse. Così cominciai a
frequentare la sua casa e lui veniva spesso a trovarci. Erano
pomeriggi intensi, contraddistinti da lunghe conversazioni,
notizie, consigli. Gli argomenti spaziavano dalla famiglia
all'attualità. Si parlava del passato. A lui piaceva
soffermarsi sulla sua attività di regista snocciolando
aneddoti su attori che aveva diretto. Commentava il mondo del
cinema. Parlava di Alida Valli, per la quale ha sempre nutrito un
particolare affetto. Ma dalle sue parole si capiva che, ad un
certo momento della sua vita, il cinema aveva cessato di essere
il suo mezzo di espressione artistica. Durante quegli anni si
rafforzava il legame che univa le nostre famiglie, in particolare
sua moglie con mia moglie Marisa ed i miei figli Giampaolo e
Francesca. Così come in quelli successivi nei nostri
incontri parlavamo dei casi da me trattati, di ladri e
truffatori, di protagonisti della cronaca nera e del dilagare
della droga e con essa della violenza. Parlavamo della crisi dei
valori morali ed umani affogati nella sete di denaro,
nell'edonismo, nell'angoscia esistenziale. "Troppo sangue"
mi disse una volta. Non voleva più scrivere storie di
questi nostri giorni. "Sono troppo crudeli, feroci ed
incomprensibili", diceva. Quando, per raggiunti limiti
d'età, dopo una quarantennale attività svolta al
servizio della gente, dei potenti, dei poveretti, dei presuntuosi
e dei modesti lasciai l'Arma dei Carabinieri, nel momento del
congedo, Soldati mi fu particolarmente vicino. Ero andato a
trovarlo a Tellaro pochi giorni prima a dirgli che stavo
concludendo la mia missione. Rievocati i vecchi tempi ci
abbracciammo commossi. Ho conservato quei momenti
indimenticabili nella mia memoria, e oggi che Mario non è
più con noi, ripenso spesso a questo grande uomo che
sapeva essere umile tra gli umili.
SALVATORE
CAREDDU 26/07/2004, Il Secolo XIX
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