Un'intervista con l'artista e
filmaker inglese, in Italia per presenziare alla sua mostra
presso la Fondazione Prada. Nelle opere, i Caraibi dei ribelli, i
minatori del Sudafrica e la bellezza enigmatica di Charlotte
Rampling. Mi piace raccontare l'ineluttabilità delle
cose, evocare stati d'animo ispirandomi al cinema di Jean
Rouch
Chi deciderà di andare a visitare la
prima mostra personale di Steve McQueen in Italia, alla
Fondazione Prada di Milano, dovrà abbandonare ogni
resistenza per lasciarsi guidare dalla visionarietà
straordinaria di questo artista che, per cominciare, ha scelto di
immergere lo spazio espositivo in una profonda oscurità.
La sorpresa, elemento chiave della narrazione filmica di Steve
McQueen, inizia dunque prima di incontrare i suoi video sparsi in
piccole salette adiacenti, altrettanto buie: Pursuit,
installazione ambientale realizzata per questa mostra, vi
avvolgerà completamente con rumori e frammenti di luce non
meglio identificabili e con un continuum di superficie
specchiante che, insieme, creano un'atmosfera onirica e
spiazzante. Dopo questo passaggio, è con uno stato d'animo
diverso che si assiste alla produzione di uno dei filmaker più
importanti degli ultimi anni. Steve McQueen, infatti, si è
imposto dall'inizio degli anni Novanta con un linguaggio filmico
che, ispirato al cinema di Jean Rouch, è modulato su una
libertà espressiva ancora più radicale. La camera
tenuta a mano, un montaggio che non rispetta assolutamente la
sequenza narrativa ma che procede invece per associazioni - anche
casuali - dalla carica emotiva straordinaria e un uso incisivo
del colore, sono le caratteristiche essenziali di uno stile che,
sebbene modulato sul soggetto trattato, è immediatamente
riconoscibile.
Pursuit è un
ambiente continuo, immerso nell'oscurità, percorso da
schermi che riflettono piccole particelle luminose. Da quale idea
si è fatto guidare per realizzarla?
A
interessarmi principalmente era la figura umana, la sua fisicità
da una parte e dall'altra, in contrasto, la sua composizione
fatta di molecole e atomi. Mi interessava partire dalla presenza
fisica di una persona per arrivare, invece, alla sua
dematerializzazione e ho pensato ai lavori filmici di Muybridge,
alla loro serialità. D'altro canto, ero molto attratto
dall'idea di evocare l'oscurità della notte, che è
sempre più difficile da sentire in tutta la sua
forza.
Come ha girato questa sequenza, a partire da due
percorsi così diversi?
Non volevo che a rendere
la frammentazione degli atomi e delle molecole fosse
un'animazione o un effetto speciale. Volevo che il punto di
partenza fosse proprio un essere umano. Così ho filmato me
stesso, nell'oscurità più assoluta di un parco
vicino alla mia casa di Amsterdam, avvolto in una giacca argentea
realizzata per l'occasione: per giungere all'astrazione di queste
immagini, che potrebbero sembrare anche dei fuochi di artificio o
un bombardamento notturno, sono partito dalla fisicità di
una persona. È un tentativo di guardare alle cose nel modo
meno ovvio possibile.
Nel video più complesso e
forse più noto, Western Deep, la sua
telecamera a mano ci porta per 24 minuti all'interno di una
miniera in Sudafrica. Il titolo e qualche immagine fanno pensare
alla volontà di esprimere una visione politica. È
così?
Se la visione politica è connessa
al volere o non volere una determinata cosa, allora la risposta è
negativa. Si tratta di un racconto, reale, storico, che ho
realizzato con la volontà di portare letteralmente alla
luce, fatti che pochissime persone conoscono. Non voglio
protestare, ma semplicemente mostrare ciò che avviene e
che altrimenti rimarrebbe celato.
Negli altri lavori
sono due persone celebri, da una parte il rapper Tricky,
dall'altra l'attrice Charlotte Rampling, al centro della
narrazione. Ha scelto due stars per aumentare l'effetto sorpresa
nello spettatore?
Non è stata questa la mia
motivazione nello scegliere Tricky o Charlotte Rampling.
Semplicemente ci sono delle persone che ti aiutano a dare forma
alle tue idee, a una particolare sensazione. Sono dei ritratti, e
per loro avviene come per gli omologhi pittorici: spesso non si
conosce niente della persona rappresentata, però proprio
quel viso è in grado di evocare delle sensazioni, dei
ricordi. Charlotte in particolare ha un viso che mi ha sempre
interessato molto perché è bellissimo e triste, un
po' come Buster Keaton. Mi fa pensare a un verso: It hurts
me good.
Proprio il lavoro dedicato a Charlotte
Rampling è indicativo rispetto all'utilizzo del colore nel
suo lavoro. Esso, mai casuale, sembra dosato per creare una
struttura all'intera narrazione. Perché ha scelto il
rosso?
Il rosso è un colore intenso, con una
carica emotiva straordinaria. Inizialmente, volevo realizzare il
lavoro in bianco e nero, ma temevo che il risultato sarebbe stato
troppo scultoreo. D'altra parte, utilizzare il colore avrebbe
comportato il rischio di ottenere qualcosa di carino, di
pittoresco. Non volevo essere distratto, nel realizzare questo
ritratto, da elementi strutturali o cromatici, e piuttosto
focalizzare l'attenzione sul soggetto della narrazione.
Carib's
leap, invece, è una doppia installazione che
riguarda un luogo preciso, una baia nell'isola caraibica di
Grenada. Da una parte scorre la quotidianità dall'alba al
tramonto, dall'altra l'evocazione, quasi astratta, del suicidio
di massa commesso dai nativi caraibici nel 1651 per non
sottomettersi ai francesi. È un contrasto anche formale
molto forte.
Certamente, da una parte c'è una
situazione da home movie: una telecamera riprende l'intera
giornata su una spiaggia dell'isola. C'è molto vento,
gente che passa, altra che lavora. Mi interessava evocare la
ripetitività delle azioni quotidiane e la loro
ineluttabilità attraverso la condizione degli abitanti di
un'isola dalla quale non si può scappare. Un ragazzo
arriva per lavorare alla sua barca e sembra non poter sfuggire da
quel luogo, da quella situazione. Nell'altro caso,invece, ho
pensato a una sorta di screen saver di grandi
dimensioni dove le immagini scorrono lente, calme.
Il
suo stile filmico, così eterogeneo, è
caratterizzato sempre da una forza visiva straordinaria. Può
raccontarci come procede: è un'idea a suggerirle poi le
immagini per evocarla o, al contrario, sono le immagini a imporre
la costruzione di una narrazione?
Non credo di aver
seguito due volte lo stesso processo. D'altronde il mio modo di
lavorare è poco metodico: non ho uno studio e qualsiasi
ambiente, qualsiasi momento della giornata, può essere
quello giusto. In fila al supermercato, mentre faccio la doccia,
mi lavo i denti oppure parlo al telefono, posso avere un'idea o
trovare un'immagine abbastanza forte da creare un buon racconto.
Sono soprattutto le domande senza risposta e i fatti che accadono
a spingermi a realizzare un nuovo progetto.
Intervista di Elena Del Drago
IL MANIFESTO 19/04/2005
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