Il
più grande compositore vivente, lo ha recentemente
definito il Village Voice. Eccessivo? Neanche tanto, se i
più si limitano ad aggiungere l'aggettivo americano,
ma non a ridurne l'importanza e il prestigio. Alla soglia dei
settant'anni, li compirà nel 2006, e con quaranta anni di
attività, la sua prima composizione è del 1965,
Steve Reich rappresenta una delle voci più riconoscibili e
forti della storia musicale contemporanea. Una storia che lui
stesso, mettendo a reagire idee e tecniche rivoluzionarie con un
sapere eccentrico e bulimico, ha contribuito a scrivere, o
meglio, a comporre attingendo alle fonti più disparate (e
più dichiaratamente anti-accademiche) e disseminando la
sua opera di concetti e prassi la cui portata è ancora
oggi decisiva nell'incrocio delle poetiche contemporanee. Ma non
chiamatelo minimalista: sebbene alcune sue opere lo accomunino
alla produzione di La Monte Young e Philip Glass, la musica di
Reich ha, da sempre, coniugato un linguaggio caratterizzato da un
lento e progressivo sviluppo, sia nell'uso delle forme che
nell'evoluzione del linguaggio.
Da It's Gonna Rain,
del 1965, al più recente, e bartokiano, almeno
nell'ispirazione, Triple Quartet, passando per le opere a
forte connotazione visuale come The Cave o Three Tales,
il compositore americano ha saputo raccontare e descrivere un
mondo in costante cambiamento, cogliendone la debolezza e la
bellezza, in un ossimorico, e vertiginoso, gioco di
rispecchiamenti. Soprattutto negli anni `70, Reich ha tracciato
una nuova mappa delle tecniche compositive, lavorando su modelli
e soluzioni fascinose, come il phase shifting,
l'aumentazione graduale di cellule motiviche, incrementando la
discrezionalità dell'esecutore, allargando i confini della
partitura. Proprio quel periodo costituisce il repertorio che
Reich, alla testa dei suoi formidabili Musicians, ha portato in
Italia. Un breve giro di tre concerti, l'ultimo dei quali stasera
a Roma: un'occasione imperdibile per ascoltare tre capolavori del
nostro tempo.
Come mai, nel breve tour italiano, ha
scelto di suonare musiche che ha composto più di
trent'anni fa?
In realtà, per un problema
meramente pratico: 18 era il numero massimo di musicisti che
avremmo potuto portare in tour. In secondo luogo, ci è
stato chiesto un repertorio popolare, in grado di
attirare un pubblico vasto ed eterogeneo. La scelta, allora, è
caduta su Music for 18 Musicians, che rappresenta, forse,
la mia composizione più conosciuta, ed è stata
suonata dal vivo in Italia pochissime volte, finora. Il resto del
repertorio è stato costruito su composizioni che avrei
potuto eseguire con quell'ensemble, e dunque ascolteremo Drumming
part 1 e Music for Mallet Instruments, Voices and Organ.
Al di là di motivi contingenti, però,
Music for 18 Musicians è, e resta, una
delle opere chiave del ventesimo secolo. Secondo lei, cosa la
rende ancora così attuale?
È
impossibile dirlo. Di norma, quando un compositore scrive musica
cerca di farlo meglio che può: a volte ci riesce, altre
meno. Music for 18 Musicians è, di sicuro, una
delle cose migliori che abbia mai scritto, come Different
Trains, Tehillim, Drumming, Desert Music.
Altre, purtroppo, non sono così interessanti! La vera
risposta alla sua domanda potrebbe essere: solo Dio lo sa...
È
vero, ma è pur vero che in quella composizione si agitano
alcune idee che hanno rappresentato uno spartiacque inevitabile
per la musica a venire. Intanto, è un brano di musica da
camera per organico di grandi dimensioni che non prevede un
direttore e che costringe, come in un combo jazz, ciascun
musicista ad ascoltare gli altri.
Non è così
strano, o così anomalo, come sembra, in verità.
Anche la letteratura per quartetto d'archi non prevede un
direttore, ed esige una totale interrelazione tra i musicisti,
che devono non soltanto suonare insieme, ma addirittura respirare
insieme. Il mio tentativo è stato proprio quello di
trasportare in un organico più ampio quello stesso tipo di
meccanismo, di funzionamento. E ciò che lo rende possibile
è un certo tipo di tecnica compositiva che ho utilizzato,
ispirandomi ai gruppi di tamburi dell'Africa occidentale. Anche
quelli sono ensemble di grandi dimensioni che suonano senza un
direttore, ma il master drummer è in grado, attraverso una
fitta serie di segnali musicali, di guidare l'esecuzione. Nel mio
brano, allora, ogni svolta è guidata da una serie di frasi
chiave, di segnali che vengono suonati da uno o due strumenti.
L'assenza o meno di un direttore, ad ogni modo, non rappresenta
una mia ricerca precisa, tanto che molte mie opere - Desert
Music, Tehillim, Proverb - prevedono la
presenza di un direttore. Lo era a quel tempo, perché
volevo sperimentare una diverso tipo di scrittura e di condotta
attraverso anche la strettissima empatia con il mio ensemble.
Oggi, finalmente, esiste anche una partitura di Music for 18
Musicians, e altri gruppi, come l'Ensemble Modern, che ne ha
registrato un'ottima versione, sono in grado di eseguire questo
brano. Insomma, il bambino è cresciuto, ma è pur
sempre mio figlio!
Un'altra idea decisiva, e
prodromica per molta musica a venire (compreso il rock: basti
pensare a Brian Eno e alle sue produzioni di Talking Heads e
Devo), su cui si basa il repertorio che eseguirà in
Italia, è quella del phase shifting, lo
sfalsamento dei piani ritmici. Può raccontarci come ebbe
quella geniale intuizione?
Nessuna geniale
intuizione, devo ammettere: fu un caso. Nel 1965, ero a San
Francisco e stavo lavorando con due vecchi registratori a bobina
per realizzare uno dei miei primi lavori. Avevo creato due loop
identici con la voce del predicatore afroamericano che dice It's
gonna rain (diventerà il titolo del primo lavoro di
Reich, ndr), e li avevo montati ciascuno su un
registratore. Indossai le cuffie e quando feci partire le
macchine mi accorsi, con grande stupore, che i due loop erano
perfettamente allineati all'unisono. E, proprio mentre iniziavo a
pensare a come sfruttare questa strana interrelazione, i due loop
cominciarono a scorrere non perfettamente all'unisono; il
risultato fu che percepii il suono viaggiare da un lato all'altro
del mio corpo. Poi, percepii una sorta di riverbero, poi l'eco, e
poi, infine, quella paradossale ripetizione della frase. Il
viaggio che mi ha portato dall'unisono alla irrazionale relazione
tra i loop, più dell'effetto ultimo ottenuto, è
stata la molla che mi ha portato a studiare il phase shifting.
Quindi, è vero che tutto è avvenuto per caso, ma mi
sono accorto che avevo ottenuto, casualmente, un risultato assai
interessante. Dapprima, dunque, tutto è nato manipolando
nastri magnetici, ma siccome non volevo passare tutta la vita a
lavorare con quei registratori, ho cercato di trasportare quella
tecnica nella musica strumentale. Nel 1967, allora, mentre facevo
correre il nastro di Piano Phase, mi sedetti al pianoforte
e, suonando sul nastro, iniziai a scivolare, gradualmente,
intorno alla musica. Funzionava, ed era interessante il fatto che
non stessi improvvisando, né leggendo, ma ascoltando con
grande attenzione una fonte sonora. Così, insieme a un mio
amico pianista usammo lo stesso principio, ma usando due
pianoforti, e senza nastro. Ce l'avevo fatta!
Nella
sua musica, soprattutto quella degli anni `70, è forte,
addirittura tangibile, la presenza di materiali jazzistici. Mi
viene un nome, su tutti: John Coltrane.
Naturalmente.
Dirò di più: l'influenza di Coltrane - uno dei
musicisti americani più importanti della storia - fu
decisiva sia per me che per gli altri cosiddetti minimalisti,
come Glass e Terry Riley. Quello che più impressionava era
la sua capacità di suonare per lunghi periodi usando
moltissime note su un materiale armonico ridottissimo (a volte
anche uno o due accordi) senza mai perdere inventiva. Il
meccanismo di suonare ritmi estremamente complessi su armonie
semplici l'avevo già scoperto nei gruppi di tamburi
africani o nel gamelan di Bali. E questi sono diventati gli
ingredienti essenziali, almeno all'epoca, per lo sviluppo della
nostra musica.
Infatti, Drumming o
Music for 18 Musicians in qualche modo
destabilizzano l'idea stessa di ritmo eurocolto. Non li si
ascolta pensando 1, 2, 3, 4, ma lasciandosi
trasportare dal flusso, dal processo: dal pulse,
un'altra delle sue idee decisive, ovvero il phase shifting
applicato al ritmo...
Mentre provavamo Music for
18 Musicians la battuta più frequente era: ehi, ma
dov'è l'uno? Il fatto è quando si scrive musica che
contiene un certo quoziente di ripetizioni, come certa musica
scritta negli anni `60 e `70 si diventa noiosi e ripetitivi; se
suoni musica con un ritmo che fa um-pah-pah, um-pah-pah per
mezzora, si è monotoni e ripetitivi. La mia idea è
che quando scrivi materiale con un grande numero di ripetizioni
allora devi costruire una certa indeterminatezza ritmica, che
deve portarti a chiedere «dov'è l'uno». Non lo
so dov'è l'uno! Per ottenere questo effetto uso i
cosiddetti tempi ternari, che mi danno la possibilità di
considerare la stessa scansione come generata da due gruppi
diversi di note (ad esempio: tre gruppi da quattro, o quattro
gruppi da tre); e questo consente lo spostamento degli accenti
ritmici. Un ritmo così generato produce instabilità,
ma soprattutto permette all'orecchio di ricostruire la musica
percepita in modi diversi.
E questo provoca la sottile
alterazione dei rapporti tra figura e sfondo...
Certamente.
Anche questo è un meccanismo al quale ho dedicato
particolare attenzione. In Eight Lines, ad esempio, la
sovrapposizione di una parte veloce di pianoforte, e di una lenta
suonata dagli archi porta l'ascoltatore a chiedersi se stia
ascoltando una musica a tempo veloce o a tempo lento. La risposta
è: entrambe, simultaneamente.
La sua musica ha
sempre veicolato un profondo senso civile. Ma, spostandoci alle
sue composizioni più recenti, com'è cambiato il suo
modo di comporre dopo l'11 settembre?
Penso che
ciascun artista, qualunque sia il mezzo con cui si esprime,
rifletta il proprio tempo. È come avere un'antenna con cui
captare tutti i segnali che ci circondano; e, ovviamente,
attraverso un'antenna, come nel caso di una radio, si captano
molte stazioni, e molto diverse tra loro. Io non credo di
scrivere musica politica, con la p maiuscola, ma certamente mi
interrogo sul mio tempo. L'11 settembre ha rappresentato un
momento cruciale della nostra vita. Io abitavo vicino al World
Trade Center e il crollo delle torri avrebbe potuto uccidere mio
figlio. Quell'esperienza mi ha annullato, per molto tempo. Non ho
scritto nulla che riguardasse specificamente quel terribile
avvenimento, ma tra i miei progetti futuri - oltre alla prima
newyorkese di You Are (Variations), e la musica per un
balletto della coreografa Akram Khan, - c'è la
composizione di un brano, provvisoriamente intitolato David
Variations dedicato alla memoria di David Pearl, il
giornalista del Wall Street Journal barbaramente ucciso dai
fondamentalisti mussulmani in Pakistan, qualche anno fa. Mi è
stato commissionato dalla Carnegie Hall e dal Barbican Center di
Londra. David, oltre ad essere uno straordinario reporter, era
anche un musicista, suonava il violino. Userò quattro
brevi testi: il primo è tratto dalla Bibbia, dal libro di
Daniele, che parla della realtà come di cattivi sogni; il
secondo è una delle ultime cose che Daniel Pearl disse,
durante il sequestro: My name is Daniel Pearl. I'm a Jewish
American from Encino, California; il terzo è una parte
del messaggio diramato dagli assassini di Daniel: If our
demands are not met, this scene shall be repeated again and
again. L'ultimo testo è ciò che disse Pearl a
chi gli chiedeva cosa si aspettasse dopo la morte: But I sure
hope Gabriel likes my music. Bene, abbiamo scoperto che I
hope Gabriel likes my music è il titolo di un brano
inciso, nel 1937, dal violinista jazz Stuff Smith. Questo disco
era nella collezione di David, e forse userò anche parte
di quella musica.
Intervista
di Vincenzo Martorella IL MANIFESTO 24/02/2005
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intervista
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