Quindici
anni di balsamica musica reggae. Slegata dai manierismi
giamaicani, capace d'inventarsi uno stile autoctono e trascinare
con sé l'intera scena nazionale. È la storia del
Sud Sound System che - a pochi giorni dalla lunga tournée
che partirà il 5 da Milano e passerà il 6 da Roma -
giunge ora al quinto capitolo discografico. Acqua pe sta terra
è un lavoro che lascia senza fiato: vitale, omogeneo,
ispirato. Il disco che sancisce forse il definitivo salto di
qualità della storica posse salentina.
Soddisfatti
del disco?
Siamo molto orgogliosi di poter dire che,
non solo la nostra direzione non è cambiata, ma oggi si è
radicata con maggiore forza e convinzione. In tutto ciò è
stato essenziale poter lavorare in casa col nostro studio.
Dopo
tante date fuori dai confini nazionali, avete la sensazione che
il vostro stile cominci a riscuotere l'attenzione che merita
anche altrove?
Il fatto di andare al Summer Jam
è già un segnale importante, perché è
uno dei principali festival europei. L'anno scorso nessuno ci
conosceva, eppure, nel giro di un paio di pezzi, la gente ha
cominciato a prestare attenzione; fino a quando non è
esplosa la vera e propria festa. Mai però come in Polonia:
lì impazziscono letteralmente per la nostra musica! I
giamaicani poi, quando ci vedono cantare flesciano
completamente, forse perché percepiscono che anche il
nostro cantato è in dialetto. Noi non conosciamo il patois
giamaicano, ma il linguaggio della musica a volte è così
potente che ti permette scambi intensissimi. Come quella volta
che abbiamo duettato con uno degli Abyssinians attraverso suoni
gutturali, o quando incontriamo Chico e Anthony B, che per noi
sono fratelli.
Com'è lo stato dell'arte della
scena salentina?
Cresce a un tale ritmo che abbiamo
finito per perdere il conto dei dj e sound system in
circolazione. Ci sono già un paio di generazioni diverse
dalla nostra, ragazzini di 14 anni pieni di entusiasmo che oggi
vengono guardati con rispetto per quello che provano a fare,
mentre quando cominciammo noi eravamo solo dei marziani. Tra i
migliori degli ultimi anni ci sono Ghetto Eden, Marina, Papa Leu,
Rankin Lele, Hot Fire, Fat House. A breve uscirà anche il
terzo capitolo della serie Salento Showcase, la nostra
panoramica su quello che bolle in pentola.
E nel resto
dell'Italia come stanno le cose?
Ci sono moltissimi
sound system e pochi cantanti. Mentre dalle nostre parti è
pieno. Forse perché da noi un soundboy qualunque ha
la possibilità di vedere sul campo quello che facciamo, e
per loro è una scuola diretta.
Non avete mai
trascurato la componente sociale insita nel suo ruolo di
cantastorie. Cos'è che vi sta particolarmente
a cuore oggi?
Noi nasciamo artisticamente guardando ai
sound system giamaicani, che non erano solo intrattenimento.
Quelle discoteche itineranti erano il media ufficiale che portava
nelle strade divertimento e cronaca, ma anche consapevolezza e
critica sociale. È per questo che oggi ci ergiamo a
difensori delle nostre spiagge e non permetteremo a nessuno di
comprarle. Questa storia non ci è piaciuta per niente.
Bisogna avere rispetto per le culture locali, perché il
Salento non è Rimini, non è un luogo che si può
trasformare in un divertimentificio. La sua
specialità è il mare, e tale deve rimanere. Senza
concessioni infinite che finirebbero per far costruire
infrastrutture che ne snaturerebbero la storia.
Intervista di Mauro Zanda IL
MANIFESTO 03/05/2005
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