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Pace: potere alla parola |
E' stato detto che una delle caratteristiche introdotte dalla Modernità è la mancanza di emozioni. O l'abbassamento della loro intensità, a vantaggio di ciò che è notizia: noi moderni siamo molti più informati (ovviamente) di quanto non lo fossero i nostri antenati (estendo la definizione fino all'Ottocento). La nostra capacità di registrazione dei dati è superiore alle emozioni che riguardano gli stessi dati che riceviamo, per esempio di certi disastri, che poi sono quelli di sempre: fame, guerre, carestie. Questi disastri, di cui siamo informati molto più dei nostri antepassati (disponiamo perfino di statistiche), sono tuttavia per noi carenti di emozioni. La Modernità, con i suoi mezzi tecnici, ha rovesciato un detto che pareva di una saggezza incrollabile: Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Questo miracolo all'incontrario si deve alla televisione. La televisione fa vedere: ci porta davanti agli occhi una sciagura lontana. Eppure, dicono gli esperti della materia, questo mezzo così efficace nel mostrare addirittura in tempo reale, è altrettanto efficace del disinnescare le emozioni che reca con sé. Una delle sciagure di sempre che grazie alla tecnologia la Modernità ha disinnescato nelle nostre emozioni (emozioni di spavento e orrore) è la guerra. Oggi noi percepiamo la guerra non più per quello che realmente è, ma per come ci viene mostrata. Remota, efficace, ma praticamente priva di sofferenze, come il raggio laser del nostro dentista che al contrario del vecchio trapano ci libera rapidamente da una fastidiosa carie, la guerra moderna (tra l'altro assai più letale di quella antica) ci sembra un'inezia. Non più corpi mutilati, cancrene, corsie infette, sangue e pus. No, è una sorta di day hospital che possiamo fare il venerdì per passare poi il nostro sacrosanto week-end al mare o in montagna. Forse che lo schermo che ci mostra lontani fuochi d'artificio significa tetti sfondati dalle bombe, corpi maciullati, bambini fatti a pezzi? Naturalmente no. E' qualcosa di indolore, così come è indolore lo schermo di un'ecografia che ci mostra il funzionamento di un tessuto visitato da una malattia della quale non percepiamo nessun effetto. Quell'ecografia è assolutamente priva di ogni dolore. Credo sia per questo che la Modernità fondata sull'immagine che ci mostra il mondo sia così ostile alla parola. Più di una volta, in questi ultimi anni, mi sono sentito chiedere da giornalisti cosa ne pensasse una persona come me, che usa la parola, di un mezzo così desueto e assolutamente non competitivo rispetto all'immagine. Insomma, banalizzando, la domanda banale che mi veniva fatta era che cosa ne pensasse della morte della parola. L'ostilità verso la parola Che la parola sia più viva che mai mi pare dimostrato dal fastidio che essa continua a provocare nella cosiddetta civiltà dell'immagine. Ha detto Iosif Brodskij che la Storia, senza dubbio, non ha molte scelte. In questo sistema binario in cui siamo imprigionati, non mi pare che avevamo l'illusione fossero passati di moda: interventismo e non-interventismo. E mi pare anche innegabile che a favore dell'interventismo sia schierata la civiltà dell'immagine: non solo per le ragioni che ho detto prima, e cioè per la mancanza di emozione con cui la televisione ci porta le immagini dei disastri, ma soprattutto perché l'immagine televisiva è più addomesticabile e controllabile della parola. Basta una Cnn e la guerra diventa un gioioso fuoco d'artificio; basta una Mediaset e la guerra diventa una necessità portata con fede, speranza e carità. La parola invece è alata, vola nell'aria, non è imprigionabile in un tubo catodico, sfugge ai palinsesti, ai talk-show imbalsamati, alle conferenze stampa di ministri e generali. La parola è Voce. E la voce è imprendibile, clandestina. Si sparge e si diffonde. Diventa vox populi. Da qui il suo potere sovversivo rispetto ad altri mezzi di convinzione. Credo sia per questo che la voce di persone come Gino Strada suscita in Italia ostilità e dispetto in alcuni. Perché essa è testimonianza (basta leggere: Pappagalli Verdi e Buskashì, entrambi pubblicati da Feltrinelli) fatta di parole non solo sulle guerre, che egli ha visto e vissuto, ma soprattutto sulle conseguenze disastrose che tali guerre, che sui nostri teleschermi parevano innocue e chirurgiche, portano inevitabilmente con sé. Il vero chirurgo che lavora sui disastri provocati da queste guerre chirurgiche è insomma il professor Gino Strada. Ed egli, descrivendoci a parole quali tipi di interventi dove attuare nei suoi improvvisati ospedali da campo, ci fornisce una percezione ben diversa dalla falsa e asettica chirurgia di cui ci parla il ministro di turno con le sue parole di carta bollata, nel programma televisivo che rassicura il nostro dopocena, insieme la generale cui verrà affidata la missione, all'immancabile esperto militare che considera le creature umane come un gioca del Risiko e al conduttore del programma che si struscia le mani contento di averci fatto contenti. Il professor Strada è un medico che ci parla di sangue, di infezioni, di corpi straziati, di bambini fatti a pezzi, di volti devastati dalle schegge, di orbite oculari rese vuote dai gas o dagli spostamenti d'aria, di arti mancanti, di protesi fatte alla buona per riuscire a far di nuovo camminare (come può camminare) un corpo ridotto a un tronconi. E' un signore che taglia e cuce le carni devastate dalla guerra. A suo modo è uno stilista, e in quanto al made in Italy personalmente lo preferisco agli eccellenti sarti che portano nel mondo il prodotto italiano. Di più, ne vado fiero. Goya e Napoleone Nel 1808 le truppe napoleoniche muovono verso la Spagna. L'idea che guida l'invasore è un'idea di democrazia e di libertà. Napoleone reca sui propri vessilli la triade Liberté Egalité Fraternité, un'indiscutibile conquista dell'umanità di progresso e di democrazia. La Penisola Iberica in quell'epoca è dominata da monarchie che certo non potremmo definire liberali: la famiglia dei Borboni in Spagna, i Braganza imparentati con gli austriaci in Portogallo. Monarchie assolute, guidate da sovrani rozzi e ottusi, ben lontani dagli ideali progressisti e democratici di cui Napoleone è l'indiscutibile vessillifero. Anche per chi non avesse pazienza di documentarsi sulle condizioni in cui le monarchie iberiche mantengono i loro sudditi basterebbe una visita al Museo del Prado di Madrid o un'occhiata alla famiglia reale spagnola di allora, che uno dei più grandi pittori dell'epoca, Francisco Goya y Lucientes, ci tramanda dei sovrani. Quelle pance enfiate da banchetti e crapule, quelle gambe gottose per eccessi di carne rossa, quei volti segnati dall'ebetudine, e allo stesso tempo da un'inspiegabile arroganza, non sono molto dissimili dalle fotografie sui settimanali rosa dei discendenti di certe famiglie aristocratiche che dominarono l'Europa prebellica e che oggi ambiscono a un riconoscimento che la Storia non può conferire loro ma che forse sarà compensata dalla vernice mondana di qualche cocktail ufficiale. Quando le truppe napoleoniche invadono la Spagna, e Napoleone porta in quelle regioni la Democrazia e la Libertà con la corona imperiale sulla testa (si è incoronato imperatore nel 1804), Francisco Goya è in qualche modo un dipendente statale. Uno statale un po' speciale, comunque, perché dopo la sua fase idilliaca e campestre, fatta di tele gioiose che celebravano l'estate contadina, le feste tradizionale, le danze, gentili donzelle sull'altalena, giovinette e giovinetti che giocano a mosca cieca, si è messo ad osservare i sovrani che gli danno uno stipendio. E ha cominciato a raffigurarli nel modo caricaturale che ho detto, fra l'altro con la stessa approvazione degli stessi sovrani, perché i sovrani arroganti e stupidi se così sono raffigurati (del resto oggi è lo stesso: in televisione, i sovrani arroganti e stupidi, e anche i loro servi, si compiacciono di vedersi raffigurati arroganti e stupidi, gli sembra normale, ani, non hanno bisogno di Goya, loro stessi fanno la caricatura di se stessi). La libertà Napoleone la porta con la guerra. E Goya la vede. E qualcosa succede in lui. La sua pittura, fatta di pastelli, di rosa e di azzurri, improvvisamente precipita in uno sfondo di tenebra dove si scorgono fiamme all'orizzonte. Carneficine, bestialità, massacri, supplizi, orrori entrano con prepotenza nei suoi occhi e nei suoi pennelli. Dal 1808 al 1814 in Spagna sono anni di terrore, di delazioni, di tradimenti, di stupri, di impiccagioni, di incendi. La Spagna di Goya era rimasta fino ad allora oppressa dal feudalesimo e dal clero, vessata dalla tirannia e dall'Inquisizione. E Goya non faceva certo parte di quella Spagna, anzi, aveva idee liberali e moderne, accettò perfino di far parte di una Commissione che segnalava a Napoleone i cinquanta capolavori della pittura spagnola di sempre. Ma la sua coscienza, la sua sensibilità di uomo e di artista sono superiori alle ideologie, a ciò che oggi potremo chiamare opportunità politica, alle considerazioni astratte, e alle ideologie. Prima di tutto egli vede gli orrori che la guerra porta sulla carne delle persone. E la sua pittura fissa insuperabilmente questi orrori. Nascono non solo quelle impressionanti pitture a olio dove un feroce Gigante della Guerra mutila e divora gli uomini, non solo quel terribile piccolo cane giallo sepolto nella sabbia che forse simboleggia non tanto una delusione esistenziale o sentimentale, quanto la sua muta disperazione di fronte alla Francia, la nazione portatrice di quei valori nei quali egli credeva. Possibile, si chiede Goya, che gli ideali di libertà e eguaglianza vengano portati con carneficine e massacri? Nasce il grande ciclo dei Desastres de la guerra ( I disastri della guerra), la testimonianza più impressionante che u uomo ci abbia lasciato rispetto agli ideali li libertà imposti col supplizio inferto sulla carne degli uomini. Se oggi, come allora, vogliamo riferirci agli orrori che in nome delle buone intenzioni chiunque può portare dappertutto, i Disastri della guerra di Goya sono un monumento imprescindibile. Negli anni dell'occupazione francese Goya annotò a matita, in un suo taccuino di schizzi, scene di stragi, esodi, massacri, il dolore e la violenza, perché tale era il panorama che aveva sotto gli occhi, sì che poté annotare Yo lo vi (Io l'ho visto). E quanto aveva visto riaffiorerà come un incubo che non si può rimuovere, forando strati della sua coscienza, sei anni più tardi, proprio quando è esule a Bordeaux, nel ciclo inciso su lastre con i Disastri della guerra. Ma a quel punto, direi, le raccapriccianti visioni dei Disastri vanno al di là del riferimento aneddotico delle invasioni napoleoniche. Esse sono semplicemente la Guerra, tutte le guerre del mondo, di tutto il passato, di sempre. La parola di Goya ci parla della carne offesa, del disgusto per la guerra e della pietà per gli uomini. Gli intellettuali saputi, la lingua, la parola Mi si dirà che stavo parlando di un chirurgo di guerra, e che certo egli non è quell'artista dotato di una visionarietà travolgente come Francisco Goya. Il problema non è questo, e un paragone estetico sarebbe fuori luogo. Comunque se proprio volessimo fare paragoni, provare a leggere qualche pagina di Gino Strada: vi sembrerà del puro Goya. Purtroppo no, non ci sta facendo la descrizione di un quadro dell'Ottocento: ci sta parlando del nostro ora, di ciò che succede nel mondo, lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Parlo semplicemente di testimonianze. Di qualcuno che, oggi, di certe guerre che ci vengono raccontate come favole belle, può dire: Io c'ero. E poi volevo parlare di altre cose. Per esempio che al tempo di Goya non mancarono quotati intellettuali che esponevano teorie convincenti, scrivevano su gazzette, e confortavano il mondo di allora spiegando serenamente che la libertà e la giustizia hanno un prezzo e bisogna pur pagarlo. E magari si appellavano a ragioni di giustizia generale, così come oggi ho sentito elogiare le garanzie che l'Onu ha assicurato in un piccolo paese come Timor nel concedergli di indire (e vincere) libere elezioni. L'argomento, così monco, mi irrita. Garantire libere elezioni è facile: farne rispettare il risultato un po' meno. Approfitto per ricordare, perché i disastri si dimenticano in fretta, che fra il risultato delle elezioni e la loro attuazione ci fu un frattempo di un mese, nel quale l'Onu si guardò bene dal fare rispettare i risultati, e che in quel frattempo le milizie para-militari di Giakarta massacrarono migliaia di timorensi. Questo lo so bene, perché inviai allora una lettera al signor Kofi Annan, e soprattutto perché conosco Timor e i timorensi. Così come conosco le condizioni dell'Angola, e lo stato in cui l'avido e funesto satrapo marxista Eduardo dos Santos ha ridotto il suo popolo, godendo dell'appoggio della comunità internazionale e degli aiuti della cooperazione che finiscono nelle sue tasche. Per questo personaggio infame, come lo era il suo rivale Sawimbi (perché sono le facce della stessa medaglia), le regole non valgono? Non si scandalizza nessuno? E in quanto alle magnifiche cooperazioni e progressive, mi è permesso di nutrire qualche diffidenza? Qualcuno si ricorda della cooperazione di un governo italiano in Somalia? Forse una brava giornalista come Ilaria Alpi avrebbe delle notizie supplementari da darci. Purtroppo è morta. Di quegli intellettuali saputi, i politologi di allora inneggianti alla libertà e progresso che portava Napoleone imperatore si potrebbero fare i nomi, ma non direbbero niente a nessuno, perché la storia li ha inghiottiti. Per un semplice motivo: perché facevano parte della Lingua. Quella, allora, era la lingua corrente. Mi riferisco con questo termine a un grande linguista che forse ci può aiutare il problema, Ferdinand de Saussure, che ha studiato il linguaggio umano dividendolo in Langue e Parole (Lingua, Parola). La Langue, secondo Saussure, è una musica indistinguibile. Tutti i violini del mondo, indipendentemente da dove siano costruiti e da dove siano suonati, hanno la stessa voce. Finché non arriva un violino che ha una voce speciale. E su quello non ci possiamo sbagliare: quel violino è suonato da una sola persona e non può essere suonato da nessun altro. Se tutti gli altri violini sono indistinguibili, quel violino si stacca dal coro, è perfettamente riconoscibile, possiede una sua Voce, è la Parole secondo Saussure. Credo che siano queste voci, o anche una sola voce, che disturbano. La parola si oppone alla lingua corrente. E' la voce che esce dal coro. Antonio Tabucchi L'UNITA' 24/10/2002 |
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