Caro
direttore, in questi ultimi giorni si è aperta una
polemica su due temi abbastanza angoscianti suscitati dalla
difficile situazione internazionale: lo Stato di Israele e
lantisemitismo, in specie un presunto antisemitismo da
attribuire alla sinistra. Rischiando leccessivo pragmatismo
che credo tuttavia necessario in certi momenti in cui bisogna
stare con i piedi per terra, ho limpressione che quando in
un paese le tragedie degli altri (specie dei nostri vicini) si
trasformano in polemica, non di rado talmente astratta da
sembrare oziosa, significa che esiste un grosso vuoto politico.
In questo caso un vuoto palese di politica estera. Di tutto si
può dire degli scorsi governi di centro, di
centrosinistra, e della sinistra delle ultime decadi, meno che
essi non siano stati fautori di unattenta e importante
funzione diplomatica nel bacino del Mediterraneo, grazie a
ministri degli Esteri che avevano il senso di cosa fosse
effettivamente la politica estera, e a qualsiasi partito essi
appartenessero. La politica estera dellItalia attuale è
non solo nulla ma spesso di una balbuzie incomprensibile fatta di
parole vuote, di proclami, di imbonimenti da sagra paesana, dove
si sente dire di tutto e di più. Cancellerie inesistenti,
incompetenza diffusa, ambasciate mute perché sottomesse a
compiti ridicoli per chi svolge una funzione così delicata
come quella di un ambasciatore di un paese in un altro paese. Del
resto se i requisiti degli ambasciatori italiani devono essere
lalito profumato e il loro compito principale vendere
allestero il prodotto italiano, dimmi tu quale tipo di
diplomazia possiamo esercitare in certi paesi. Che si può
fare in Israele? La nostra mortadella (per altro squisita) gli
israeliani non la consumano, per motivi religiosi, e gli arabi
neppure per gli stessi motivi. E che si può fare in
Afghanistan? Le imprese italiane che scavano gallerie non sono
molto utili, visto che di grotte lAfghanistan è
ricco, e i buchi che mancavano hanno pensato a scavarli i
bombardamenti americani in profondità. E poi ad aprire
ulteriori voragini ci pensano eventualmente i terremoti. Nessuna
variante tirrenica da imporre né in Afghanistan né
in Palestina: fine della politica estera italiana. Alcuni mesi
fa, quando scrissi per la prima volta su questo giornale, parlai
di «deriva» del nostro paese (tu gli desti il titolo
«LItalia alla deriva»), attirandomi la
disapprovazione di chi mi considerava un eccessivo pessimista.
Ormai la parola «deriva» è passata nel lessico
corrente del giornalismo, almeno quello non celebrativo delle
eroiche gesta di Berlusconi, anche il più cauto. Ebbene,
la deriva italiana (nel caso del conflitto israeliano-palestinese
mi pare una deriva anche sentimentale, psicologica, ideologica) è
soprattutto, credo, una deriva politica. Io sono convinto da
sempre, da quando cominciò ad esistere lo Stato di
Israele, che tale Stato debba essere riconosciuto da tutti, e che
la sua integrità debba essere assicurata. Riconoscere
questo significa rispettare il volere della comunità
internazionale sancita dallOnu che nel 1947 volle e
riconobbe lo Stato di Israele. Ma sono convinto anche che le
risoluzioni dellOnu (ormai sono molte) che impongono a
Israele di ritirarsi dai territori occupati, e alle quali lo
Stato di Israele disubbidisce da sempre, debbano essere
altrettanto rispettate. Il rispetto è un fatto reciproco,
ed è per questo che servono i ministri degli Esteri degli
altri Stati, in un contenzioso così teso e ora così
tragico. Il problema non è tanto dunque, a mio avviso,
di chiedere ai cittadini «il dovere di amare lo Stato di
Israele» come ho letto in una delle polemiche suscitate da
un articolo (fra laltro profondo ed equilibrato) di Adriano
Sofri, né, come gli è stato rimproverato da altre
parti, di non amare lintegrità di uno Stato
palestinese, auspicabile e ancora tutto a venire. Gli Stati non
si amano, di per sé: si osservano, si criticano, si
esortano, si incoraggiano al dialogo. Questo è il compito
degli altri Stati non belligeranti che possono esercitare una
reale influenza con la loro politica estera. Chiedere ai
cittadini di amare o di non amare uno Stato significa
coinvolgerli sentimentalmente in una questione che è più
grande di loro, significa chiamarli psicologicamente a un
confronto che non è di loro competenza, a unadesione
morale, irrazionale, guidata magari da immagini televisive, da
notizie dei mass-media, dalle rispettive sorti in gioco. E gli
umori della folla, quando si sente il vuoto della politica, sono
rischiosi. Lopinione pubblica somiglia sempre alle onde del
mare, che come si sa non ubbidiscono a una scansione logica, e
finisce su un piano assolutamente platonico: ci si mette a
discutere sul sesso degli angeli e si dimentica il parere del
povero Aristotele che lacqua è bagnata. Il discorso
vale nella tragedia collettiva come in quella familiare. Che
importa ormai la verità sul bambino massacrato a Cogne?
Limportante è: da che parte stai, sei colpevolista o
innocentista? Ove essere in un modo o nellaltro diventa una
quasi-scelta ideologica, a seconda dei personaggi e dei giornali
che sostengono luna o laltra tesi. O, per abbassare
il livello: tu sei per la Roma o per la Lazio, visto che luna
è una squadra che si dice più «popolare»
e laltra più «borghese»? Caro
direttore, credo che il banale concetto che lacqua è
bagnata in certi casi sia necessario. Perciò in questa
nostra «deriva» in cui ormai anche i repubblichini
sono stati fatti passare come ragazzi di Salò (noi lo
sappiamo come fossero maturi i loro caporioni) che lottarono
comunque per lonore dellItalia, è opportuno
appellarci al vecchio Aristotele e alle verità
verificabili. In questo caso verità storiche. È
opinione diffusa della migliore storiografia italiana che (e rubo
la citazione a un libro di uneccellente storica: Carla
Forti, Il caso Pardo Roques. Un eccidio del 1944 tra memoria e
oblio, Einaudi 1988) «gli italiani scoprirono di avere dei
connazionali ebrei solo in seguito alle leggi razziali. E molti
degli stessi ebrei si ricordarono solo in quella sciagurata
occasione di essere tali». Se questa affermazione è
vera vorrei, ritornando con i piedi per terra, ricordare che le
Leggi Razziali del 1938 non le firmò Antonio Gramsci, ma
Vittorio Emanuele III di Savoia, dei cui discendenti lItalia
attende con ansia il ritorno. Ai quali però nessuno dei
partiti che hanno aderito con entusiasmo al loro ritorno, di
destra come di sinistra, si è ricordato di chiedere che
riportassero con loro larchivio storico che il loro papà
trafugò quando, dopo il referendum, scelse lesilio
portoghese di Cascais. E credo che in questo «buco»
che nessuno si è ricordato di chiedere, una storia
dItalia che magari è stata venduta allasta o è
stata nascosta nei sotterranei di una banca svizzera, consista la
maggiore deriva di questa nostra Italia: un paese a cui è
stata sottratta la propria storia, quella più recente
fatta di stragi e di omissis, e quella meno recente occultata e
stravolta. In queste condizioni un paese privo di riferimenti
storici sicuri e di una rappresentanza politica che possa
assicurare la serenità e il buon senso che sono la
garanzia di una consapevole politica estera, di una diplomazia
autorevole che ci possa far sentire uno Stato rispettabile,
possiamo forse emettere opinioni rispettabili su altri Stati?
Finora per fortuna in Italia non si sono verificati episodi
antisemiti rilevanti, e non sono state incendiate sinagoghe. Ma
in certe regioni italiane lintolleranza razzista che è
le due facce di una stessa medaglia non manca, e la folla della
curva dello stadio ondeggia minacciosamente. I cretini con i
fiammiferi in tasca non mancano. Se lasciamo che a guidare un
paese non siano i fatti concreti, il lavoro diplomatico, le
iniziative politiche, ma linvito ad andare dove ci porta il
cuore, lItalia non è soltanto un paese alla deriva,
ma può trasformarsi in una pericolosa mina
vagante. Cordialmente Antonio Tabucchi
|