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Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi, cinema amore mio

Il personaggio di Pereira è nato nella mia immaginazione e, anche se non ho descritto il volto, sapevo bene qual era la sua faccia. Poi c'è stato il film di Roberto Faenza tratto dal mio libro. Da allora se ripenso a Pereira riesco solo a vederlo con la faccia di Mastroianni e questo è il più bel ricordo che mi è rimasto di Marcello”. La nuova sezione “In Progress” del Festival del cinema di Locarno, dedicata quest'anno al rapporto tra cinema e letteratura, con un incontro che ha visto come protagonista lo scrittore Antonio Tabucchi. Un'occasione per incontrarlo ai margini della conferenza e farsi raccontare qual'è il suo rapporto con il cinema, a partire dai primi ricordi.

“I primi ricordi risalgono a quando ero bambino, anche perché le mie emozioni cinematografiche precedono quelle della lettura dei libri che ho scoperto soltanto nell'adolescenza. Prima c'era stata la scoperta del cinema, visto che i miei genitori e soprattutto mio zio mi portavano con loro alle proiezioni. Eravamo tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50. In quel periodo il cinema veniva vissuto diversamente. In quel periodo l'Italia viveva una specie di euforia per la liberazione da un ventennio di soffocamento, anche cinematografico. Eccetto alcune singole opere che il ventennio fascista poteva anche aver prodotto, tutte le altre pellicole in circolazione non erano altro che storie piccolo-borghesi, i cosiddetti “telefoni bianchi”. Soltanto dopo la guerra l'Italia si è potuta vedere sullo schermo nella sua vera immagine. E cioè come un paese che aveva sofferto una guerra di liberazione, il disastro dell'invasione nazista, il fascismo con tutte le macerie che non erano state ancora rimosse. Di conseguenza, è piuttosto facile immaginare quanto forti fossero le sensazioni provate davanti a film che rappresentavano quella realtà come Sciuscià, Roma città aperta, Achtung! Banditi!, Ladri di biciclette. E' evidente che, essendo allora bambino, non potevo capire né la portata storica né quella sociale di questi avvenimenti. Ne percepivo le emozioni a livello epidermico, perché era qualcosa di contagioso. Nella sala del mio paese, ad esempio, si reagiva passionalmente di fronte alle immagini. C'era gente che gridava, piangeva, urlava, imprecava. Era un momento di forte partecipazione collettiva. Sì, un grande rito collettivo che diventava una sorta di catarsi, qualcosa di liberatorio. Sullo schermo Anna Magnani correva dietro alla camionetta dei tedeschi che le portavano via il marito per poi cadere a terra dopo la mitragliata e subito sentivi il pubblico che gridava “porci”, indirizzando le invettive ai nazisti del film. Insomma, in un clima di questo tipo un bambino ne usciva fortemente colpito. E' stata proprio la grande stagione del neorealismo italiano a segnare, per così dire, l'inizio del mio innamoramento nei confronti del cinema. Una passione che poi ho conservato negli anni. Ancora oggi sono uno spettatore che, non appena può, entra in sala per guardare un film.”.

Oltre a quelli del neorealismo, quali sono stati i suoi autori di riferimento?

Il regista che forse amo di più in assoluto è Fellini, per cui conservo una predilezione speciale fin dai tempi dello Sceicco Bianco e dei Vitelloni. Fellini è un universo a sé, alimentato dalla forza di una fantasia scatenata. Lui non si è mai imposto autocensure, anzi, al contrario, è uno che è sempre andato dove più desiderava. Ci sono alcuni che tendono ad addomesticare la propria immaginazione, magari per rispondere la propria immaginazione, magari per rispondere a categorie narrative o estetiche e così giungono a imporsi delle grammatiche. A me, invece, piace la grammatica di Fellini proprio perché sfonda e deborda dove gli pare e piace. Un regista che non ha mai corretto la sua fantasia ipertrofica.

E dei film americani cosa ci racconta?

Bè, ci sono state delle cose del cinema americano che hanno acceso il mio entusiasmo. Ce ne sarebbero molte da raccontare a partire da Via col vento in poi.

Allora parliamo di “Via col vento”.

Posso solo dire che è un grande film tratto da un libro mediocre.

Al di là del caso particolare, si sentiva allora lo stacco, la diversità tra il cinema italiano e quello americano?

Come raccontavo prima, quando ero piccolo, mio zio mi portava a vedere, per esempio i primi film western. Ed era una scoperta straordinaria. Immaginate per un bambino cresciuto in Toscana, che la domenica al massimo veniva portato in un museo a vedere le opere di Giotto o Piero della Francesca, ritrovarsi tutto ad un tratto di fronte a questo universo popolato da bisonti e indiani che corrono nella prateria. Lì per lì, uno pensa: “ma allora nel mondo ci sono anche queste cose!”.

Ogni nuovo film una nuova finestra sul mondo?

Certo, erano soprattutto viaggi con la fantasia, con cui si penetrava negli spazi di una geografia immaginaria. E in fondo il cinema era ed è anche questo. Poi, a tredici anni, ho avuto un incidente al ginocchio che mi costretto a restare immobilizzato per un lungo periodo. Mi annoiavo a tal punto che ho cominciato a scoprire la lettura. All'inizio film e libri potevano sembrare due esperienze separate, tant'è vero che, non appena guarito, sono subito tornato a rifrequentare il cinema. Ma già lì iniziavo a capire più cose, perché nel frattempo avevo letto Conrad o Jack London. Alcuni “luoghi americani” lo avevo già visitati con le letture. Non era più quell'esperienza quasi da fantascienza di prima.

Questi sono stati i suoi anni di formazione. Ma passando all'attualità, lei non pensa sia ormai giunto il momento di insegnare il cinema nelle scuole?

Sarebbe fondamentale, visto che ormai è da un secolo che è nato il cinema. Purtroppo le burocrazie per l'insegnamento scolastico in tutti i paesi sono lentissime. E quindi difficilmente le buone intenzioni diventano statuti e regolamenti. Certamente sono favorevole all'idea che il cinema venga insegnato proprio nei suoi meccanismi. Del resto, quando uno trova un manuale che spiega come si fa un film, scopre subito un universo affascinante. E a maggior ragione oggi che molti ragazzi arrivano a possedere facilmente strumenti tecnici come le piccole videocamere. Non si può pensare di lasciare che si arrangino sempre da soli.

Come vede il panorama del cinema italiano contemporaneo?

Ci sono molti autori che mi piacciono, giovani e meno giovani. Nanni Moretti, Mario Martone e mi fermo qui con i nomi per non fare torti a chi ora dimentico. Sono convinto che in Italia si facciano bei film, anche se poi subentra il problema della distribuzione e del dove poter vedere queste opere. Una questione di spazi, strozzati, prima che di idee, a cui bisogna dare un'urgente risposta per non lasciare che molte cose belle rimangano nell'ombra.

E' più strozzato il panorama del cinema o quello della letteratura?

Sicuramente quello del cinema, per via dei costi e del suo sistema di espressione. Tutto sommato io per fare un libro non ho bisogno che di un quaderno, perché posso scrivere a mano, senza nemmeno un computer. Scrivo dove mi pare e non mi costa niente, a parte lo sforzo personale. Dopodiché un editore, piccolo o grande che sia, riesco sempre a trovarlo. Per il cinema invece la situazione è molto diversa.

Lei non pensa che una libertà come quella che si è concessa Fellini sia più difficile da rintracciare oggi, visto che il cinema è andato sempre più configurandosi come un'arte industriale?

Non farei dichiarazioni così perentorie. Secondo me, non è detto che il cinema sia per forza un'arte industriale. Anche perché se accettiamo questo principio, scendiamo al medesimo livello di quegli editori che vogliono la “letteratura light” lanciata dagli americani. E allora ti possono benissimo obbligare a raccontare, ad esempio la storia di una spia infiltrata in Afghanistan, perché in un preciso momento è questo ciò vuole il pubblico. Io sono contrario. E chi l'ha detto? Chi ha inventato questi principi?

Secondo lei, nonostante le difficoltà, rimangono comunque e sempre margini di libertà?

Ripeto, non è detto che il cinema sia esclusivamente un'arte industriale e quindi un'arte di mercato. Lo è anche, ma non solo. L'importante è proprio non cedere a quegli imperativi che sembrano non concedere alternative, ma sapersi conservare dei salutari margini di libertà. Anche perché tutti li possono rivendicare in qualsiasi momento.

Intervista di Lorenzo Buccella – L'UNITA' – 03/08/20032




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