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Il malhoun, canto delle oasi, esprime il nuovo dentro l'antico |
Quando il Gruppo di comunicazione visiva mi ha contattata perché pertecipassi, a marzo, all'incontro di Genova, mi ha chiesto di parlare dell'immagine della donna nel diritto di famiglia in Marocco. Confesso che non scrivo da molto tempo sull'argomento, benché segua sempre da vicino ciò che accade nel campo in cui le militanti femministe hanno saputo e potuto imporre una discussione sulla revisione del testo della moudawana (il codice del diritto di famiglia) che ha sollevato l'insieme della società e diviso il paese: da una parte i conservatori incalliti di qualunque tendenza e dall'altra quelli che vogliono restituire anche solo un po' di dignità alle donne. Se non scrivo più su le donne e il diritto di famiglia è anche per evitare di ripetermi (odio le ripetizioni). Su questo piano nulla è mutato in modo fondamentale. La donna marocchina continua ad essere considerata minorenne a vita agli occhi della legge, anche quando è ministro, ambasciatrice, donna d'affari, magistrato. Così, siccome il tema degli incontri genovesi era le donne tra religione e tradizione, preferisco tornare sulla mia esperienza di donna rispetto alla tradizione. Mentre cercavo di decifrare la mia persona, di scoprire quella che sono, con i miei blocchi, le paure e le aspirazioni, sono arrivata al problema delle donne. Le associazioni culturali alla fine degli anni '70 e il mensile Kalima negli anni '80 (una rivista socioculturale che privilegiava la causa femminile), mi hanno offerto la cornice ideale per placare la mia sete di sapere e conoscenza, lavorando sul campo. Le inchieste sociologiche e giornalistiche, i ritratti e reportages che ho realizzato, mi hanno permesso di avvicinare donne e uomini di appartenenza sociale e orizzonti diversi e di affrontare la realtà nella sua complessità, spogliata da ogni demagogia. Così sono riuscita a capire che il male non viene soltanto dalle norme che discriminano le donne, ma anche dalle donne stesse. Che non sono soltanto vittime passive. Non sono soltanto oggetti di oppressione. Sono anche soggetti di oppressione. Sono loro che riproducono la dinamica del dominio maschile. Il cambiamento non può venire dall'abolizione delle leggi ingiuste nei confronti delle donne, benché sia una tappa necessaria. La società non è retta soltanto dalle normative, cosa che le femministe dimenticano spesso... La rivista Kalima ha cessato le pubblicazioni nel 1989 e con ciò la mia ricerca è giunta alla fine. Le circostanze mi hanno spinto ad un altro livello nella mia ricerca in quanto persona. Sono dotata di una voce che ho messo a tacere negli anni della militanza e del giornalismo, ma la voce ha insistito per farsi ascoltare. Sono tornata al mio primo amore: il canto. E, sul mio cammino, ho scoperto il malhoun (che è un canto tradizionale basato, inizialmente, su testi di grande valore poetico. E' nato nel XIV secolo nelle oasi del sud marocchino, per svilupparsi in seno alle corporazioni degli artigiani nei centri urbani come Fès, Marrakech, Mekhnès prima di spegnersi nel XX secolo con l'introduzione del modello di vita industriale. L'incontro con il malhoun mi ha sconvolta e cambiato la vita. Incantata e sedotta dal quel canto, colpita dalla fiamma creatrice dei suoi poeti, che erano anche i compositori, mi sono iscritta a un corso di un vecchio maestro, unico che si trovasse a Casablanca, città moderna, rivolta verso il futuro e libera dal peso di un passato che rende una città tradizionale simile a una conchiglia, ripiegata su se stessa, soddisfatta delle acquisizioni precedenti. Imparando le regole di quel canto difficile, bello e raffinato, ho deciso di consacrarmi a quell'attività. Devo dire che il canto non mi è estraneo. Canto dall'età di nove anni. Ho sempre fatto musica. Ma cantare un canto tradizionale era completamente al di fuori delle mie preoccupazioni. Proprio io, che negli anni '70 e '80 ero schierata contro la tradizione, che mi battevo con le unghie e coi denti per la modernità, mi sono ritrovata nel cuore della tradizione. E sono stata trascinata da una valanga di domande: che cosa è tradizionale e che cosa è moderno? Perché noi, che ci proclamiamo schierati con la modernità, ignoriamo la tradizione? Tuttavia, mentre mi esercitavo all'arte del malhoun, come la chiamano da noi, l'opacità pesante imposta da quelle domande cominciava poco a poco a dissiparsi. Mi si è rivelato un aspetto nuovo, chiaro e luminoso della tradizione. La tradizione non può essere rifiutata in blocco, definendola reazionaria, retrograda o anacronistica. Nella tradizione c'è tutta una vita palpitante in cui l'amore, il desiderio, il corpo, occupano un grande spazio. Di fatto ho capito che ci hanno confiscato la nostra tradizione, occultandola sotto la maschera di una rigidità atroce e di una uniformità riduttrice. Hanno ridotto la tradizione a pochi testi sacri, scelti a seconda delle circostanze, per proteggere interessi meschini, sottomettendoli ad un'interpretazione mediocre. Sottolineo bene la parola mediocre, perchè questi nuovi interpreti sono tagliati fuori sia dalla cultura arabo-islamica, che era una cultura di apertura su tutte le altre culture dell'epoca, sia dalla cultura moderna universale. Grazie alla musica, mi sono riconciliata con ciò che è vivo e bello nella tradizione. I testi del malhoun nascondono una grande sensualità ed esprimono una libertà di toni che raramente troviamo nei poeti arabi contemporanei, che si dichiarano modernisti. Trasmettono una maniera di amare, di commuoversi, che fanno riflettere profondamente. Grazie al malhoun, fra l'altro, ho conosciuto da vicino gli intellettuali e musicisti tradizionali. Che sono, purtroppo, gli unici detentori del patrimonio culturale ed artistico tradizionale del Marocco. Questa gente è immersa in un'altra cultura e ha un'altra visione del mondo rispetto alla mia. Vivono nel Marocco di un'altra epoca e rifiutano ogni cambiamento. Frutti di una decadenza che hanno resa perenne, rinsecchiti e vecchi nell'anima, trasmettono la tradizione come qualcosa di morto, oppure rifiutano nettamente di trasmetterla. Preferiscono portare nella tomba ciò che hanno ereditato dagli antenati (sono molti i tesori della cultura orale scomparsi per sempre a causa di questo comportamento, che non so bene se sia da attribuirsi a scarsa generosità, a incoscienza, a ignoranza o a tutti questi motivi insieme). Sono loro, i tradizionalisti, ad essere anacronistici, non la tradizione. Non riescono ad appropriarsi della vitalità della tradizione. Rimangono congelati dentro la loro ottica e non riescono a vedere né ciò che si muove intorno a loro, né dentro i testi. Si aggrappano ad alcune formule vuote della tradizione, come naufraghi alle tavole spezzate di una barca, trascinata verso un'altra riva dalla marea più forte. Ho deciso di mettermi a cantare il malhoun, che è una canto esclusivamente maschile. Così sono diventata, nella storia di quest'arte, la prima donna ad averlo cantato da specialista. L'ho dichiarato mio, levandogli la polvere di dosso. Sono diventata la maglia di una catena in cui non ci sono tradizionale e moderno, né la donna da una parte e l'uomo dall'altra, ma una catena di creatori e amanti della bellezza. Appropriandomi del malhoun, gli ho dato un nuovo respiro: il mio. L'ho caricato emotivamente di tutta la mia esperienza di donna in cerca del nuovo, anche dentro l'antico. Con me il malhoun si è trasformato. E' diventato altro, senza perdere nulla di sé, grazie al suo genio, alla sua vitalità, alla sua capacità di adattarsi e questo è proprio della grande arte. Ho raccontato questa storia per dire che la battaglia delle donne non è soltanto giuridica. E' anche culturale nel senso più ampio del termine. Se ho smesso di partecipare alle azioni delle associazioni femminili e di scrivere sulla situazione giuridica delle donne, non è perché svaluti la loro azione. E' perché ho aperto una breccia, per non dire una lotta vera e propria. Non mi considero una combattente, anche se sono un tipo combattivo. Lavoro nella serenità e la gioia, contro tutti i conservatorismi, la rigidità e la mediocrità. Touria Hadraoui (traduzione di Antonella Viale) |
TOURIA HADRAOUI Touria Hadraoui, 44 anni, è nata e vive a Casablanca. La sua vita è molto intensa, con varie attività che hanno un denominatore comune: l'impegno socio culturale a favore delle donne, nella riscoperta della tradizione e la sua rivalutazione da un punto di vista chiaramente progressista. Laureata in filosofia a Rabat e al Conservatoria di Casablanca, Hadrauoi ha insegnato al liceo per qualche anno. Si è dedicata, poi, al giornalismo, prima come responsabile delle inchieste per il periodico socio culturale Kalima, poi pubblicando su riviste e quotidiani di prestigio: Rivages, Die Zeitung, Smemoranda in Italia. Nel frattempo ha partecipato alla formazione di un gruppo culturale per la liberazione della donna, alle animazioni nei corsi di alfabetizzazione femminili, lavorando anche come consulente all'Università di Casablanca o per l'Università dell'O.N.U. La fine di Kalima segna, però, la fine della sua attività di giornalista a tempo pieno e la riscoperta di un vecchio amore: il canto. A partire dal 1990 si impegna in questa attività e diventa una cantante professionista di malhoun, un canto molto poetico antichissimo che era riservato solo al genere maschile. Ha inciso sei album, l'ultimo è: Extraits de chants soufis marocains (Ouman, Casablanca). Ha scritto anche quattro libri (l'ultimo: Un'infanzia marocchina) ed ha vinto il premio donna dell'anno 1997, eletta dai lettori di La citadine. Antonella Viale IL SECOLO XIX Link: www.cicv.fr/archives/TB/ARTISTES/hadraoui.html http://www.maroc-hebdo.press.ma/MHinternet/Archives375/HTML-375/Culture.html
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