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Tracy Chapman, via dalla pazza guerra |
Tracy Chapman esce con un nuovo disco, Let it rain, il suo sesto. Lontani sono i tempi del folgorante debutto nel 1988, eppure la cantautrice americana (attesa in tour in Italia dal 10 al 15 febbraio 2003) non sembra essere cambiata più di tanto. Un po' più sicura e meno timida, ma coerente col suo modo di fare musica senza compromessi. Lei it rain ce la riconsegna con le sue ballate scarne e semplici, e i testi essenziali e senza fronzoli, ma profondi. Che parlano di gioie e dolori quotidiani. Condivisibili da tutti e, per questo, universali. Colpisce subito un fatto: nel disco non ci sono riferimenti diretti alla tragedia dell'11 settembre. Come mai? Semplicemente perché avevo scritto le canzoni prima di quegli avvenimenti e non mi sembrava il caso di cambiare tutto. I pezzi parlano di vita, amore, morte, relazioni, fede. E di quell'alternanza così diffusa fra gioia e dolore, speranza e disillusione. E' vero, può apparire contraddittorio non trovare riferimenti precisi, ma credo che gli argomenti del disco riflettano esattamente quello che la gente prova in questo difficile momento. Siamo di nuovo sull'orlo di una guerra e alcuni tuoi colleghi hanno criticato apertamente l'operato di Bush. C'è la possibilità che nasca un movimento di musicisti contro la guerra. Forse, ma non è così semplice. Ci sono persone che temono che il loro atteggiamento pacifista possa essere scambiato per antipatriottismo: dopo l'11 settembre e gli atti terroristici il senso di appartenenza alla nazione è aumentato e c'è molta paura in giro. E, soprattutto, le cose accadono soprattutto troppo rapidamente. E' difficile prevedere l'andamento della situazione da qui a una settimana. Anche sulla guerra in Iraq vedo che ci sono notevoli contrasti d'opinione: so che diversi miei colleghi come Bon Jovi, James Taylor e Jackson Browne si sono schierati contro la guerra. Io sono d'accordo con loro e continuo a credere in una soluzione diplomatica. Torniamo al disco. C'è un brano, Hard Wired, che si stacca dagli altri per la violenta critica verso un certo tipo di media. E' un commento sul ruolo e l'influenza che media e pubblicità hanno sulla gente. E, soprattutto, sulle persone più misere e indifese, che sono affascinate dalla possibilità di diventare celebrità e farebbero di tutto per questo. Chi realizza certi reality show ne sfrutta la debolezza: è molto crudele vedere tanta gente gettare via la propria dignità. Colpa della povertà: l'altro giorno ho letto un articolo di Leonard Cohen sul New York Times, che parlava di quanto sia aumentata la povertà negli Usa. E' vergognoso che un paese potente e in buona salute come il nostro permetta tutto ciò. A questo si collega anche la povertà spirituale dei nostri tempi: ti manca qualcosa di più profondo e cerchi rifugio nei beni materiali. A distanza di anni continui a proporre una musica completamente fuori dalle logiche del business. Come ci sei riuscita? Ho avuto la fortuna di cominciare quando ancora fra i discografici c'era gente che amava la musica e non pensava solo a far soldi. Oggi, invece, puntano tutto sul successo immediato, una strategia sulla breve distanza che non fa crescere gli artisti: chissà, forse se non avessi avuto successo col mio primo disco, adesso non sarei qui a parlare con te. Cosa ne pensi dei fenomeni di cassetta tipo Britney Spears? Il music-biz va a cicli che si ripetono: così vanno e vengano anche le celebrità da top-ten per i giovanissimi. Ma, per fortuna, in testa alle classifiche ci vanno ogni tanto anche delle eccezioni come James Taylor e Bruce Springsteen. Il fenomeno Eminem non è altro che la vecchia storia di un bianco che fa musica black, come agli inizi anche Presley. Piace ai ragazzi, che lo trovano provocatore e trasgressivo. Mentre Britney Spears, in fondo, non è molto diversa da quel che facevano, non è molto diversa da quel che facevano anni fa a starlette come Tiffany o Debbie Gibson. Ricordi le tue prime interviste, quando ti chiudevi a riccio e rispondevi a monosillabi? Adesso abbiamo di fronte un'altra persona... Beh, ho accumulato tanta esperienza, ora so bene quel che posso attendermi dal business e quello che voglio io. Ho imparato a difendermi e ho trovato degli amici nel settore. Rispetto a prima sto molto meglio, non ho più il terrore. Adesso essere fermata per strada non mi fa paura, anzi, talvolta è piacevole, come mi è capitato mesi fa a Roma, dove la gente mi riconosceva e mi comunicava in calore incredibile. Mi hanno anche offerto da bere...Sul palco, invece, continuo ad emozionarmi tantissimo: ma questa credo sia una cosa bellissima, no? Intervista di Diego Purugini L'UNITA' 16/10/2002
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