Gus Van Sant è gentile,
il viso adolescente sorride con gli occhi e sembra spesso
divertito delle sue parole. Prima di rispondere a una domanda ci
pensa un attimo, un sorso al frullato di fragola, un'occhiata al
suo attore, Michael Pitt, poi le frasi con tono morbido, quasi
esitante. Elephant due anni fa vinse Palma d'oro e miglior
regia. E Last Days, già prima di vibrare sugli
schermi, era il film più atteso sulla Croisette. Anche se
la vera sfida è con le immagini (personalissime) di chi
agli inizi degli anni 90 ha scoperto che il postmoderno non aveva
divorato la vertigine dei sensi, quei ragazzini grunge ormai
cresciuti, allora pazzi di Kurt Cobain, delle sue Polly e degli
unplugged con voce roca, generazione destinata al
precariato che all'improvviso scopriva di essere nel mito.
Qualcosa che non accadeva da tanto tempo, eterno e irripetibile.
Anche se Last Days non è un film su Kurt Cobain. Lo
ripete quasi fino all'ostinazione Gus Van Sant. Kurt c'è
ma questa non è la sua storia. Come Gerry, come
Elephant, non esiste un prima. Ne parliamo con Gus Van
Sant.
Last Days compone insieme a
Gerry e a Elephant una
trilogia. Ci può spiegare in che senso?
Tutti e
tre sono film che si concentrano sulla morte. Gerry
partiva dalla vicenda di di due ragazzi che si erano perduti nel
deserto, Elephant dal dilagare degli omicidi nelle scuole
americane sull'onda di Columbine, e quest'ultimo dalla morte di
Kurt Cobain. Sono film che si svolgono in spazi unici: il
deserto, la scuola, e per Last Days una casa. Il cast è
ridotto e così la troupe.
Ha sempre detto che
Last Days, che è dedicato a Kurt
Cobain, non è la sua storia.
All'inizio avevo
pensato a tre storie parallele, un po' come in Elephant:
Blake, i ragazzi, un detective. Poi abbiamo capito che il
personaggio di Blake assorbiva tutto. Ma questo non voleva dire
una biografia. Diciamo che ho provato a immaginare gli ultimi
momenti di qualcuno che si suicida. È una sensazione che
avevo vissuto alla morte di River Phoenix, che è stato un
trauma molto doloroso per me. Quando Cobain è morto, lo
stesso sentimento sembrava appartenere a persone diverse, l'idea
cioè che qualcuno stia male e nessuno lo aiuti.
Perché
questa presenza ripetuta della morte?
La nostra
generazione è cresciuta con la paura della bomba. Oggi ci
sono altre paure che giustificano le bombe... Forse però
dipende dalla mia età, dal fatto che si cominci a perdere
le persone che ami e sei costretto a riflettere sul tuo corpo,
sulla vita. Non sono religioso, mi definirei un agnostico. Ma
questi tre film sono per me un'espressione new-age. C'è
qualcosa che riguarda la meditazione, in Last Days, molto
vicina al buddismo.
Torniamo a Kurt Cobain...
Ci
siamo incontrati solo una volta, credo che la sua morte dipenda
molto dal lavoro, dalla droga, dagli psicofarmaci, tutte cose che
se mescolate insieme distruggono. In quel periodo aveva problemi
col lavoro, stava separandosi, era depresso. Ma questa è
la mia interpretazione, e è lo stesso motivo per cui non
volevo fare una biografia. Si devono avere molte informazioni per
spiegare una vita, c'è bisogno di passare molto tempo
insieme a qualcuno e anche così non basta. Per questo ho
preferito concentrare il film sugli ultimi giorni, che sono
comunque, anche per le persone più care, un mistero. La
morte di Kurt Cobain è una storia nota. Mancano i dettagli
però e anzi intorno al suo suicidio c'è un vero
mistero. C'è stata un'inchiesta per omicidio e ci sono
almeno 300 pagine di rapporti... Volevo però che il film
parlasse anche a chi non conosce la storia. C'è un ragazzo
che soffre, si parla di famiglia, di amici...
Come
reagiranno i suoi fan?
Un amico che è stato
anche un grande suo fan ha amato molto il film. Non significa
nulla ovviamente. Però credo che altri miei film abbiano
affrontato una materia forte, penso a Drugstore cowboy o a
Psycho, sono due difficoltà diverse, una si
confronta con un capolavoro del cinema che appartiene
all'immaginario collettivo, l'altra con una realtà limite.
Così Elephant che tocca la violenza in America
negli anni 90, proprio come Last Days. Se queste cose
accadono in un certo momento e in un certo luogo ci deve essere
una ragione profonda. E è questa che brucia più di
tutto.
Anche Last Days è
costruito su un tempo «circolare», che esclude il
momento della morte di Blake...
Credo che l'assenza
renda la situazione più forte emozionalmente e più
realistica che nei film in cui la morte diviene il momento
topico. Anzi credo che quando Blake suona la batteria, prima di
morire, il film raggiunga un'intensità che sarebbe
impossibile in una narrazione tradizionale. E questo vale anche
per l'intera struttura del film, la concentrazione temporale
permette molta libertà, aiutata anche da un sistema
produttivo piccolo, che ti dà molta più velocità
di movimento. In Elephant la circolarità del tempo
è ancora più dilatata, visto che seguiamo
personaggi differenti. In Last Days abbiamo racchiuso il
film nel personaggio di Michael Pitt.
Gli amici di
Blake ascoltano i Velvet. È un modo per suggerire
un'analogia tra diverse esperienze nell'industria del
successo?
Venus in Furs è una canzone
che mi è sempre piaciuta, e in quasi tutte le mie
sceneggiature c'è un momento in cui i personaggi mettono
su un disco nel soggiorno. È un'immagine molto americana e
poi fa parte dei miei ricordi d'infanzia, un cugino metteva
sempre i dischi di Presley. Per me il successo è arrivato
con Drugstore Cowboy, nell'89 che era uno spaccato di
Portland divenuto internazionale Qualche tempo dopo, nel 91, i
Nirvana fanno la stessa cosa con la musica, c'è una
somiglianza fra i cittadini di Seattle, che erano parte di quel
movimento musicale, e quelli di Portland: nessuno di loro voleva
uscire da una condizione regionale. È difficile essere
famosi senza un vero legame con il luogo in cui vivi. Finisce che
la gente viene da te per chiedere l'autografo o dei soldi, come
capita a Blake nel mio film.
Intervista di Cristina Piccino
IL MANIFESTO 14/05/2005
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